Gerusalemme, la città fantasma dove ognuno può essere nemico

Strade deserte, tutti a casa con la tv accesa e lo sguardo attento ai social

Strade deserte a Gerusalemme
Strade deserte a Gerusalemme
di Nello Del Gatto
Martedì 10 Ottobre 2023, 23:27 - Ultimo agg. 11 Ottobre, 19:05
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Una città fantasma. Gerusalemme, la città santa, sacra per le tre religioni del libro, da sabato scorso è sempre più desolata. Le mura dorate di Solimano il magnifico che la circondano, sembrano più opachi. Come lo sono i volti dei residenti che, oggi più che ieri, camminano come fantasmi ma si voltano al primo rumore. Sabato era l’ultimo giorno di Sukkot, la festa dei tabernacoli o delle capanne. Chiude il ciclo delle feste religiose che dura quasi due settimane: inizia con Rosh Hashana, il capodanno ebraico; continua con Yom Kippur, il giorno dell’espiazione, una delle più sacre nelle quali non si può far nulla, neanche uscire in auto, pure l’aeroporto è chiuso. E si finisce appunto nelle capanne con Sukkot. Per l’occasione le famiglie si riuniscono, i più laici viaggiano anche all’estero complici le chiusure delle scuole, ritornano in patria gli espatriati per far visita ai parenti.

Sabato mattina doveva essere la solita alba di un giorno festivo. Invece la sveglia è stata data dalle sirene, con conseguenti boati quando i proiettili del sistema antimissilistico Iron Dome, lo scudo di ferro, intercettavano i razzi facendoli esplodere in cielo. Corsa nei rifugi, cosa che non accadeva da tempo. La liturgia è sempre la stessa: suonano le sirene, si corre nel rifugio, le sirene smettono e dopo qualche minuto si sentono i boati. Dopo puoi uscire. Questo per diverse volte, nel corse della mattinata. Pomeriggio sereno. Dopotutto ai razzi, in questa anormale quotidiana normalità, ci siamo abituati tutti. Anche se di sabato non si dovrebbe, televisione accesa e collegamenti sui social. È qui che si è iniziato a scoprire l’orrore. Un migliaio di miliziani di Hamas aveva fatto breccia e letteralmente conquistato porzioni di territorio israeliano al sud, facendo morti e ostaggi. Da questo momento, la luce si è spenta. Si sono smontate le capanne.

La prima notte è stata di attesa e paura.

Quando il numero delle vittime ha cominciato ad avere proporzioni che un massacro sembra riduttivo, quando si è scoperto che sono stati portati a Gaza ostaggi di ogni età e sesso, la vita è cambiata. Domenica doveva essere la prima giornata di lavoro e ripresa della scuola dopo le feste. Muoversi a Gerusalemme negli orari di punta è difficile, il traffico la fa da padrone, le auto sono incolonnate. Ma domenica no. Scuole chiuse, uffici ridotti al lumicino. Sembrava Yom Kippur o il covid, c’era il deserto. La città vecchia sembrava l’unica isola felice: pellegrini, turisti, fedeli di ogni religione affollavano la Spianata delle Moschee o Monte del tempio, lo spiazzo dinanzi al Muro del Pianto o Muro occidentale, la via dolorosa, il Santo sepolcro, il monte Sion, il Getsemani. 

Più si andava avanti nella giornata, più le immagini di orrore, accompagnate dall’aumento esponenziale di vittime e ostaggi, aumentavano, più si rabbuiava Gerusalemme. Il vociare delle televisioni e delle radio era inframmezzato dal suono sordo delle finestre piombate dei rifugi che quasi tutti gli appartamenti hanno, segno che anche in assenza di lancio di razzi, la gente preferiva dormire rintanata nella scatoletta blindata per paura che anche nella città santa potesse succedere quanto successo al sud. Che cioè qualche pazzo ti entri in casa e ti uccida a sangue freddo. Dopotutto Gerusalemme è città di confine. Tagliata in due da una linea oggi immaginaria, senza barriere. Quelle sono a pochissimi chilometri, quattro, cinque, rappresentate da un muro alto. Separano il luogo dove Gesù è nato da quello dove è morto. Qui convivono tutti, non sempre in pace. E tutto l’arco politico e religioso è rappresentato: dai laici agli stremisti religiosi, dai moderati e progressisti ai più accaniti conservatori, ai fondamentalisti. Qui è dove puoi vedere camminare vicine una ragazza in minigonna e una con il chador; un uomo con i payot (i tradizionali riccioli ebraici) e un altro con tunica e shashia (il copricapo arabo). 

Questo fino a sabato mattina. Poi tutto è cambiato. La città vecchia è ora un deserto. Sembra di essere tornati al tempo del covid, con la differenza che stavolta la chiesa delle chiese, il Santo Sepolcro, è aperto. Come le altre. Il canto dei francescani, il suono delle campane, le litanie ortodosse in greco, armene, copto, etiopico e siriaco, il canto del muezzin e il suono dello shofar, la lettura melodiosa della torah, il suono delle campane si continuano a mescolare e, complici il silenzio, si sentono di più. I negozi in città vecchia sono chiusi, i gruppi di pellegrini stanno andando via, cercando in tutti i modi di ritornare in patria. E andare per strada o in auto non è semplice nella città santa. Ci si guarda intorno, con circospezione. Se sei in auto e una ti si avvicina troppo velocemente, acceleri, temi che ti venga addosso. Se sei a piedi e vedi una faccia strana di fronte a te cambi marciapiede. In questo clima, ogni ebreo, anche più di sinistra, progressista, uno che aiuta i profughi e si batte per la Palestina, è visto come pericolo e colono da eliminare da un arabo. Un arabo, anche il più progressista, che lavora da sempre fianco a fianco con gli ebrei, è visto come uno di Hamas e quindi da eliminare. Il fatto che si giri armati, poi non aiuta.

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Si cerca di stare a casa il più possibile. La Custodia di Terra Santa, la secolare struttura derivata dal poverello di Assisi che da sempre custodisce i luoghi sacri, ha deciso di tenere le chiese aperte. Dopotutto nelle scuole francescane, oggi chiuse come le altre per ragioni di sicurezza su ordine del governo, bambini cristiani studiano con musulmani. Hanno in comune la lingua e l’origine araba. E in questi giorni, la stessa paura che l’altro sia un nemico. 

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