Poesie di Cesare Pavese: il poeta che sfidò il suo tempo

Il poeta e il narratore convivono nello scrittore di Santo Stefano Belbo non senza combattersi

L'altro Pavese: il poeta che sfidò il suo tempo
L'altro Pavese: il poeta che sfidò il suo tempo
di Francesco Mannoni
Lunedì 25 Marzo 2024, 07:00 - Ultimo agg. 19:34
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«Pavese decide di narrare in poesia anche e proprio per uscire dallo psicologismo della lirica a lui contemporanea». Parola di due giovani e agguerriti critici, entrambi professori dell'università di Siena: Niccolò Scaffai, docente di Letteratura italiana contemporanea, e Marco Villa, ricercatore della stessa disciplina, che hanno curato la prima edizione critica di tutte le Poesie di Cesare Pavese (Garzanti, pagine 684, euro 20, appendice critica di Anna Carocci). Si tratta di un lavoro meticoloso, in cui hanno rivoltato verso per verso opere come Lavorare stanca e Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, ma anche le Poesie del disamore, in cui il pessimismo induceva a pensare che «usciremo un mattino,/non avremo più casa, usciremo per via;/ il disgusto notturno ci avrà abbandonati;/ tremeremo a star soli. Ma vorremmo star soli».

«C'è un'esigenza di oggettività descrittiva», sostengono i due curatori, «da contrapporre agli sfoghi soggettivi che Pavese stesso aveva scritto in gioventù ma che ormai sentiva superati. È dalla considerazione dell'insieme che si coglie meglio la specificità di questi versi.

Pavese esprime una volontà di studiato contrasto e quasi di agonismo rispetto ai modi e alle correnti della lirica italiana accreditati o in via di affermazione negli anni del suo esordio. In particolare, con il suo primo libro di versi, Lavorare stanca, segna la distanza fra la propria poetica e il lirismo assoluto, la poesia rarefatta che in quegli anni si definiva ermetica ed essenziale». 

Lavorare stanca resta un titolo più che mai importante: «Nel libro ricorrono espressioni come “Una volta”, che sembrano contenere un'eco fiabesca. Questa può essere collegata a una sorta di indefinitezza, tale da mettere il ricordo fuori dal tempo cronologico, spostandolo in un prima indistinto. In questo senso, lo stesso titolo non va letto solo e tanto come perentoria affermazione di un disagio di matrice sociale, quanto di una condizione esistenziale, individuale. L'espressione, cioè, può valere come emblema di un desiderio o aspirazione di fuga (di un altrove remoto, quasi leggendario parla del resto la poesia iniziale, I mari del Sud) che sfuma nel mito», spiegano Scaffai e Villa. 

Il poeta e il narratore convivono nello scrittore di Santo Stefano Belbo (9/10/1908- 27/09/1950) non senza combattersi: il è probabilmente il termine-chiave che collega il poeta e il narratore. L'adempimento migliore della sua poesia è probabilmente nella sua prosa, in particolare nei Dialoghi con Leucò, che portano a un esito coerente ed estremo la cristallizzazione dell'immagine in mito avviata proprio da Lavorare stanca. Tra i versi e le opere narrative esistono dei punti di contatto, spesso legati all'ambiente, alla collocazione delle storie dei protagonisti in un paesaggio umano e naturale comune.

La letteratura americana, oltre che sul Pavese narratore, ha influito sul Pavese poeta, ricordano i due curatori: «Per il giovane poeta l'America letteraria aveva un nome su tutti gli altri: Walt Whitman. A lui dedicò la sua tesi di laurea, prima di farsene traduttore. Ma l'influenza, per quanto non possa non esserci stata, ha trovato un ostacolo nella differenza di temperamento tra i due: è Pavese stesso a riconoscere di non possedere il vasto respiro oratorio dell'autore di Foglie d'erba. Più facile lasciarsi influenzare da narratori-modelli di un realismo secco e essenziale, ma non ridotto al mero naturalismo, capace di aprirsi a significati e suggestioni ulteriori: negli anni delle prime poesie di Lavorare stanca Pavese tradusse Moby Dick di Melville».

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Importante è comprendere il peso di queste liriche nella poetica italiana novecentesca, il suo duplice contributo: «Da un lato, con autori come Umberto Saba e Sandro Penna, alimenta quella linea di poesia anti-lirica, oggettiva e narrativa che si dà come alternativa, più o meno sotterranea, alla linea di poesia pura e ermetica dominante almeno fino al secondo dopoguerra. Dall'altro il Pavese antropologo e irrazionalista, quello interessato al mito, all'arcaico e ai grandi simboli dell'umano, influenzerà a partire dagli anni Settanta alcuni poeti del cosiddetto neo-orfismo, su tutti quello che è considerato da molti il maggiore poeta italiano vivente, Milo De Angelis. Certo, in molti sostengono che il miglior Pavese sia il narratore in prosa, e che la poesia gli sia servita come mezzo per scoprire la propria reale vocazione. Sicuramente la sua parabola, che nella seconda metà degli anni Quaranta lo porta a scrivere i migliori romanzi parallelamente alle peggiori poesie, può confermare una simile lettura». Tuttavia, «ridurne la poesia a una funzione ancillare è senz'altro ingeneroso, e quanto meno Lavorare stanca sta di diritto tra le grandi raccolte poetiche del Novecento italiano», concludono Scaffai e Villa. 

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