Le vite spezzate delle Fosse Ardeatine di Mario Avagliano e Marco Palmieri: «La nostra Spoon River»

«La storia più straziante è quella delle famiglie Di Castro-Di Consiglio, arrestati in 14 il 21 marzo»

La commemorazione dell’eccidio delle Fosse Ardeatine al Tempio Maggiore
La commemorazione dell’eccidio delle Fosse Ardeatine al Tempio Maggiore
di Titti Marrone
Domenica 24 Marzo 2024, 08:00 - Ultimo agg. 16:09
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Per un mese, ogni mattina la signora Gigliozzi andò a Regina Coeli per portare pranzo e biancheria pulita al marito. Romolo Gigliozzi aveva 36 anni e un bar in via Rasella 140. Era stato catturato dai nazisti mentre correva ai giardinetti in cerca dei suoi bambini: i partigiani dei Gap avevano fatto saltare in aria un carretto pieno di dinamite contro una colonna del Polizei Regiment Bozen e il barista temeva che nell'esplosione, costata la vita a 33 soldati tedeschi, i suoi figli fossero morti. Loro si salvarono, lui invece fu preso: sarebbe stato uno dei 335 italiani massacrati alle Fosse Ardeatine. Sua moglie avrebbe capito che era morto dal fatto di non aver mai avuto indietro la biancheria sporca dal «gentile soldato tedesco» che ogni giorno riceveva dalle sue mani il pranzo e i vestiti puliti. Ma sarebbe passato molto tempo per completare l'identificazione dei cadaveri, tre dei quali restano ancora oggi senza nome.

Per l'ottantesimo anniversario della strage simbolo della Resistenza italiana, avvenuta il 24 marzo 1944, Mario Avagliano e Marco Palmieri propongono un'autentica Spoon River che ricostruisce con minuzia esistenze, speranze e testimonianze di ciascuno dei 335 martiri: Le vite spezzate delle Fosse Ardeatine.

Vi si restituisce un nome, una storia e una memoria a ognuna delle vittime, di ogni età, professione e classe sociale, di diverse religioni, appartenenze politiche e regionali italiane. Tra i 19 campani ci furono il regista Gerardo De Angelis di Taurasi, che aveva lavorato con Roberto Rossellini, e il generale Sabato Martello Castaldi, di Cava dei Tirreni, che sulle mura della cella incise con un chiodo la scritta: «Quando il tuo corpo non sarà più, il tuo spirito sarà ancora più vivo nel ricordo di chi resta». 

Avagliano, autore con Palmieri di vari saggi su fascismo e dopoguerra e anche lui nato a Cava, dice di essersi ispirato a quella scritta. «Così a venire fuori dal libro è una Resistenza plurale dal punto di vista sociale e politico», spiega. «Tra le vittime ci sono stagnini, avvocati, militari, docenti, contadini. I comunisti eretici di Bandiera Rossa ed ex fascisti come Aldo Finzi, che era stato sottosegretario del Duce. Nobili pariolini e popolani di Centocelle. La Campania è la seconda regione per numero di vittime. Non si conoscevano le biografie di tutti, ricostruirle è stato un impegno morale e civile, un risarcimento dovuto». 

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La strage fu affidata al capo delle SS Kappler, a sovrintendervi fu Priebke, ma il libro chiarisce il ruolo di fascisti e «volenterosi carnefici» italiani. Questa parte, con i relativi nomi, è ancora da scrivere?
«Si tende ancora a pensare che sia una responsabilità solo nazista ma la rappresaglia avvenne su territorio sottoposto alla Repubblica di Salò, l'elenco fu compilato con il questore Caruso che fornì 50 nomi e oltre il 50% delle vittime erano state arrestate dai fascisti o denunciate da italiani. Tra le spie ci fu anche un'ebrea, Celeste Di Porto, famosa come la Pantera Nera, che consentì la cattura di molti correligionari. La ricerca è iniziata nel 2011, alcuni archivi hanno manifestato difficoltà ad aprirci le porte, è stato necessario consultare molte fonti e ci siamo avvalsi di diari, lettere, interviste a familiari».

C'è stato chi ha sostenuto che la strage si poteva evitare se i responsabili di via Rasella si fossero consegnati. Che ne pensa?
«Anche Kappler ammise che l'eccidio delle Fosse Ardeatine fu deciso e compiuto in gran fretta e segreto per timore che ci potesse essere a Roma una rivolta. La reazione a via Rasella fu attuata in meno di 24 ore, i responsabili nemmeno furono cercati, si optò per una punizione esemplare da mostrare ai romani, poco collaborativi con i nazisti. E la notizia fu data solo a cose fatte, il che contribuisce a demolire quell'ipotesi poi formulata dai fascisti».

Anche la storiografia resistenziale ha le sue ombre, avendo raccontato le Fosse Ardeatine come una strage di soli partigiani?
«L'eccidio è veramente un paradigma del nazismo, terzo per numero di vittime dopo Marzabotto e Sant'Anna di Stazzema. Fu varie cose insieme: fu la strage tipo della Resistenza italiana, fu un esempio dell'accanimento nazista contro i civili e fu un capitolo della Shoah italiana: lì furono uccisi 76 ebrei».

Se dovesse estrarre, tra tutte, una storia?
«La più straziante è forse quella delle famiglie Di Castro-Di Consiglio, arrestati in 14 il 21 marzo. Sei maschi vennero uccisi alle Fosse Ardeatine, le donne e i bambini furono mandati ad Auschwitz. Tutti sterminati. Compreso il giovane Franco, che non era stato preso ma si presentò spontaneamente pensando che i suoi parenti sarebbero andati in campi di lavoro e chiedendo di unirsi a loro. Erano stati denunciati in quanto ebrei da un delatore, Leonardo Leonardi, che intascò la somma prevista».

I 335 uccisi furono tutti maschi ma nell'introduzione si dice che quella delle Ardeatine fu anche una storia di donne: vuol spiegare perché?
«Gli uomini muoiono, le donne restano con il loro carico di sofferenza cominciata al momento del rastrellamento e continuata per sempre. Dopo la liberazione di Roma del 4 giugno 1944 comincia la ricerca spasmodica degli scomparsi, avviata già nei giorni successivi all'eccidio. Tra i primissimi a scoprirli sarebbe stato, insieme a un prete, un giovanissimo Claudio Villa, messo sull'avviso dall'odore dei corpi. Il primo aprile i nazisti fecero saltare con l'esplosivo l'ingresso delle cave, in luglio iniziò il riconoscimento dei corpi ormai straziati, compiuto dalle mogli, dalle madri e dalle figlie dei caduti. E furono loro, sempre loro a dare vita all'Associazione dei familiari delle vittime, fonte importantissima per questa nostra Spoon River italiana». 

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