Neapolis, l'ultimo segreto: il Canto delle Sirene e una corsa nella notte

Un viaggio nel tempo alla ricerca del Genius Loci

Vestigia di Neapolis
Vestigia di Neapolis
di Vittorio Del Tufo
Domenica 3 Marzo 2024, 08:58
6 Minuti di Lettura

«Non sarà il canto delle sirene
Che ci innamorerà
L'abbiamo sentito bene
L'abbiamo sentito già»
(Francesco De Gregori, Il Canto delle Sirene)

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Partenope non è morta, Partenope non ha tomba, scriveva Matilde Serao in una delle sue Leggende napoletane. Ma se Partenope non è morta, dove possiamo sentire, oggi, il suo canto? Dove batte, insomma, il suo cuore? Forse a Megaride, dove la Sirena-uccello venne a morire e dove sbarcarono i primi coloni greci, fondando la città antica? O forse tra il Monte Echia e il Pallonetto Santa Lucia, dove danzano i fantasmi del passato e la toponomastica è un teatro di ombre? E invece no. Per sentire il canto di Partenope dobbiamo recarci nell'area sulla quale oggi insiste piazza Nicola Amore, e più esattamente nel luogo dove si svolgevano le gare più famose della Napoli greca: le corse lampadiche. È lo stesso sito dove l'imperatore Augusto, nel I secolo dopo Cristo, fece edificare un nuovo tempio (romano) che accolse i Giochi Isolimpici. Se camminare per Napoli equivale a viaggiare nel tempo, e non solo nello spazio, è un meraviglioso viaggio alla ricerca del genius loci quello che ci conduce a una profondità di decine di metri sotto il livello stradale, un luogo magico un tempo affacciato sul mare: è qui che durante i lavori della metropolitana sono riemerse straordinarie testimonianze del passato. Ed è qui che L'Uovo di Virgilio vuole condurvi per mano.

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Neapolis, 450 avanti Cristo.

Alla sirena-dea, Partenope, erano dedicate le corse lampadiche. E vico Lampadio era il nome con il quale nell'antichità veniva denominato l'attuale vicoletto della Pace. I partecipanti dovevano correre di notte tra due ali di folla stringendo nel pugno una fiaccola accesa. Percorrendo le strette viuzze della città, gli atleti raggiungevano il sepolcro innalzato a Partenope, che sorgeva da qualche parte nei pressi del porto (l'esatta ubicazione nessuno è stato in grado di ricostruire con certezza). La difficoltà consisteva nel non far spegnere la fiaccola, e la palma del vincitore spettava al primo corridore che fosse arrivato al traguardo con la face ardente. Al vincitore veniva data come ricompensa, tra le altre cose, una corona di spighe di grano e si rendevano sacrifici alla Sirena con libagioni rituali e con gli autunnali sacrifici dei porcellini, propiziatori di un abbondante raccolto e buon auspicio per i focolari riaccesi e la ripresa della vita familiare.

Cosa è rimasto, oggi, di quell'incanto? Poche tracce, smarrite nei labirinti di numerose stratificazioni. A Neapolis la cerimonia della corsa era legata al raccolto e avveniva a fine autunno: i concorrenti partivano da Sant'Aniello a Caponapoli e terminavano la loro corsa nella zona dell'attuale piazza Nicola Amore, sull'arenile di fronte al mare, nei pressi del luogo dove durante i lavori della metro è stato rintracciato il tempio Isolimpico dedicato ad Augusto e dove già da prima doveva trovarsi il tempio di Partenope. A lei, alla Sirena-scrigno, era dedicato il rituale di «rinnovo della natura e dei fuochi».

La gara notturna con le fiaccole, la lampadodromia, era a sua volta collegata al culto di Demetra Attica, dea della agricoltura e del matrimonio. La corsa venne poi ripresa in età romana, con le gare Isolimpiche istituite nel I° secolo d.C. in onore di Augusto quando, dopo un terremoto e un incendio, la città venne, per l'ennesima volta, rifondata.

Il passato è un teatro di ombre. La lampadodromia faceva certamente riferimento al mito della sirena Partenope, che aveva dato il nome alla città, ma anche al culto di Demetra, la dea rappresentata dalla spiga di grano che, insieme ad Apollo e ai Dioscuri, era considerata divinità patria della città. Un tempio dedicato al culto della Sirena venne dunque innalzato fuori le mura, sulla fascia costiera, nella zona orientale. I Giochi Isolimpici furono istituiti da Augusto proprio a imitazione dei Giochi che si svolgevano in Grecia, nel santuario di Olimpia, come è ormai accertato proprio grazie allo straordinario lavoro degli archeologi della Soprintendenza. Durante gli scavi sono venuti infatti alla luce, di questo tempio, colonne e decorazioni di marmo e un bellissimo pavimento a mosaico. Alla metà del II sec. d.C. l'edificio sacro è stato ricostruito e circondato da un ambulacro rivestito in lastre marmoree.

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«Non sarà il canto delle sirene che ci innamorerà», cantava Francesco De Gregori in uno dei suoi brani più belli. Ma il Canto della Sirena ha certamente fatto innamorare i napoletani, che ancora oggi sono sulle tracce della favola che ha dato il nome alla città. E queste tracce portano davanti al mare, che un tempo bagnava Napoli all'altezza dell'attuale Corso Umberto. Il rito della corsa, come ci spiega Teresa Tauro, autrice di numerosi studi sulla città greca, rimanda al culto di Demetra e di sua figlia Persefone, detta anche Kore, rapita da Ade, dio delle ombre e dei morti. Storia terribile e maledetta, perché dopo aver rapito Persefone, Ade la portò con sé nel suo regno dell'Oltretomba. Così la povera Persefone, nel pantheon greco, diventò la dea del mondo sotterraneo e Demetra cominciò a dannarsi nel tentativo di ritrovare la figlia perduta. Il mito di Demetra e del rapimento di Persefone (nella mitologia romana diventano Cerere e Proserpina) si incrocia con quello delle Sirene, che un tempo ancelle e compagne di Persefone furono punite dalla madre della fanciulla proprio per non aver saputo proteggere la figlia, rapita da Ade (Plutone). Disperata e furibonda, Demetra, per punirle, le trasformò in creature con il corpo di uccello e la testa di donna, come vengono raffigurate nella mitologia greca.

Dopo il ratto di Ade e la scomparsa della figlia, Demetra corre disperata alla sua ricerca. Il dolore della madre per la perdita dell'amata figlia rende la terra arida e improduttiva e l'umanità torna allo stadio primitivo della economia basata sulla raccolta dei frutti spontanei della terra, senza agricoltura, né città. È questa la fase in cui le Sirene, già compagne di Persefone, vengono trasformate in terribili uccelli e mandate da Demetra alla ricerca della figlia per mare e per terra e negli inferi. Senza Demetra, impegnata con le Sirene nella ricerca della figlia scomparsa, la terra s'inaridì, i terreni si secarono, gli alberi non diedero più frutti. Senza Demetra la terra era destinata a morire. Dovette intervenire Zeus a riportare la pace, obbligando Ade a restituire Persefone alla madre.

Ma il dio delle tenebre l'aveva ingannata invitandola a mangiare dei semi di melograno che la costrinsero a tornare negli inferi per alcuni mesi all'anno. Così Persefone cominciò a trascorrere sei mesi nel Regno dei Morti e sei mesi tra i vivi, nella terra che ricominciava a fiorire. Il seme muore per germogliare: nasceva il ciclo delle stagioni. La corsa con le fiaccole mimava la corsa notturna e disperata di Demetra alla ricerca della figlia scomparsa. La gara si concludeva con il getto delle fiaccole in mare. Ombre del passato, nel cuore incandescente della nostra memoria.
 

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