Noi, polvere di stelle: quell'inno all'amore nella Napoli del '77

Viaggio alle origini di uno dei più grandi succcessi della musica italiana

Noi, polvere di stelle: quell'inno all'amore nella Napoli del '77
Noi, polvere di stelle: quell'inno all'amore nella Napoli del '77
di Vittorio Del Tufo
Domenica 7 Aprile 2024, 10:00
6 Minuti di Lettura

«Addio ragazza ciao
io non ti scorderò
dovunque tu sarai
dovunque io sarò»

(Alan Sorrenti, Figli delle stelle) 

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Era una notte di novembre del 1977 quando il protagonista di questa storia ebbe la certezza di trovarsi al posto giusto nel momento giusto.

Quel posto era la sua casa di campagna di Morlupo, arroccata su uno sperone di tufo a forma di ferro di cavallo, nei pressi di Roma. Lui era un musicista di 27 anni, padre napoletano e madre gallese, aveva già due dischi alle spalle e, influenzato da cantautori come Tim Buckley e Peter Hammil, fece partire la base musicale; dopodiché, come per miracolo, le parole arrivarono da sole. Quelle parole - in un mondo, e in un'Italia, che in quel periodo coltivava sogni di rivoluzione - parlavano di felicità interiore e di rapporto intimo, personale, con la natura e con l'universo. Parlavano della gioiosa solitudine che ciascuno di noi porta dentro di sé, in un rapporto di connessione spirituale, quasi mistica, con lo spazio - lo Spazio - che ci circonda.

Lui, il protagonista di questa storia, non dovette preoccuparsi poi tanto di aver scritto un testo new age, lontano dalle mode e dagli stereotipi di quegli anni, molto politicizzati, di cui pure era figlio. Anzi anticipò, a suo modo, la stagione del riflusso. Lasciò che si dicesse, in giro, sui giornali, tra i colleghi, tra gli ascoltatori, che aveva scritto un testo un po' paraculo che ammiccava al popolo della notte, e in particolare ai ragazzi, figli della «notte che ci gira intorno».

Già due anni prima, nel 75, bordate di fischi lo avevano costretto a interrompere la sua esibizione a un festival del proletariato di Licola.

Lui, il protagonista di questa storia, guardava già oltre. Nel 77 avrebbe lanciato uno dei più grandi tormentoni della storia della musica in Italia.

Quella canzone si chiamava «Figli delle stelle» e lui era Alan Sorrenti. 

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Se è vero che, come diceva Shakespeare, siamo fatti della stessa materia di cui sono fatti i sogni, è vero anche che i nostri corpi sono composti della stessa materia di cui sono fatte le stelle. Alcuni anni fa una ricerca condotta da un team di astrofisici coordinati dalla Northwestern University di Evanston (Illinois) è arrivato alla conclusione che quasi la metà del nostro corpo ha origine cosmica. La nostra galassia assorbe ogni anno «una quantità di polveri pari al peso del Sole: e sono proprio le esplosioni di supernove a disseminare lo spazio di gas e polveri». Vista la quantità di materiale che viaggia nello spazio, spiegarono gli astrofisici americani, in un certo senso ciascuno di noi può considerarsi un viaggiatore dello spazio. Insomma, piaccia o non piaccia, siamo fatti di polvere di stelle, provenienti da altre galassie. Lo dicono gli scienziati e prima di loro lo disse quel giovane cantautore che prima di sbalordire l'Italia con il ritmo incalzante di «Figli delle stelle» aveva esplorato altre latitudini sonore, dal progressive rock alla psichedelia, passando per la riscoperta (e la reinvenzione) di classici della tradizione napoletana come «Dicitencello vuje».

Come le stelle, silenziosi nella notte ci incontriamo. Il testo sembra far riferimento a un ragazzo e una ragazza che si incontrano nella notte e sono entrambi consapevoli che il loro incontro si limiterà a quella notte. Ci incontriamo per poi perderci nel tempo. In quei mesi di fine 77 il movimento della musica disco stava ormai per assumere una popolarità mainstream. Di lì a pochi mesi il popolo della notte avrebbe sudato nelle discoteche al suono di «Stayin' alive» e «Night fever» dei Bee Gees, colonna sonora del film «La febbre del sabato sera», che uscì in Italia il 13 marzo 1978, tre giorni prima del rapimento Moro.

Alan Sorrenti ha sempre sostenuto, e sostiene tuttora, che «Figli delle stelle» sia, invece, uno stato mentale, se per mente si intende il cervello connesso al cuore: una sorta di energia psichica «che ci collega alle stelle».

Come due stelle noi, silenziosamente insieme ci sentiamo. Quella notte a Morlupo, provando e riprovando, scrivendo e riscrivendo, continuava a cadere nell'espressione «Figli delle stelle». Ovvero, quello che siamo: esseri universali. 

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Nei giorni in cui nasce «Figli delle stelle», inno all'amore universale, Napoli è attraversata da forti tensioni politiche e sociali. In una città che si leccava ancora le ferite del colera del 73, il terrorismo mordeva con Nuclei Armati Proletari, nati nel 1974, e la Colonna Senzani delle Brigate Rosse, passando attraverso l'arresto e la prigionia di centinaia di militanti. Il 1977 era stato l'anno del rapimento di Guido De Martino, figlio dell'ex segretario nazionale del Partito Socialista, Francesco De Martino. In una città sospesa tra angosce e speranze, la spinta al rinnovamento aveva prodotto, due anni prima, la prima esperienza di amministrazione di sinistra in città. Una palingenesi anche culturale che si è scontrata però con problemi antichi e irrisolti: Maurizio Valenzi avrebbe dato lustro alle speranze di riscatto di una città, di un popolo, scontrandosi con i mille problemi di un tessuto sociale profondamente lacerato, problemi che si sarebbero ulteriormente aggravati dopo il terremoto del 1980. Ma Napoli in quegli anni era anche un fiume di creatività, un teatro nel quale si sperimentavano di continuo nuovi linguaggi. E Alan, a quei tempi, era uno a cui piaceva spalancare le finestre, far entrare aria nuova, mescolare linguaggi, culture e provenienze.

Insomma, quella di «Figli delle stelle» è anche la nostra storia. La canzone prese forma a Los Angeles, e fu davvero il frutto di un incontro di stelle. Negli studi di Jay Graydon - chitarrista e produttore dell'album - si incontrarono artisti del calibro di David Foster, famoso pianista e produttore, e David Hungate (dei Toto) al basso. Se il celebre riff alla chitarra che ha fatto la fortuna del brano porta la firma di Graydon, le parole nascono invece vicino Roma, in una casa di campagna, mentre è al club Divina di Milano che il brano debutta. «Milano - ha ricordato recentemente Alan Sorrenti in un'intervista a Maria Egizia Fiaschetti su «La lettura» del Corriere della Sera - era più internazionale e ha colto il significato del pezzo, che è, sì, vivere la notte, ma con spirito da sognatore».

Quando il brano uscì, Alan aveva alle spalle una carriera di raffinato cantautore rock di chiara matrice psichedelica/progressiva. Nel 1973 aveva pubblicato il suo secondo lp, «Come un vecchio incensiere all'alba di un villaggio deserto», registrato a Londra con musicisti del progressive rock britannico. Non solo genere disco dunque, ma tante influenze e contaminazioni dal soul al funky. Alan aveva trascorso i primi vent'anni della sua vita tra il Vomero («Quartiere attentissimo alle novità che arrivavano dall'estero») e il Galles, Londra e Folkstone, sulla Manica. Ora il cantautore che nel 1977 ci mandò in orbita sta vivendo una seconda giovinezza: buddista, continua a coltivare la propria spiritualità e il proprio dialogo con l'universo: ha appena composto un brano chiamato «Cosmica», e sono «atmosfere cosmiche» quelle che intende continuare a frequentare, nella continua osmosi con altri suoni, altre tradizioni, altre culture, in un meticciato continuo che non intende smarrire né disperdere il rapporto con l'universo, ma nemmeno quello con le proprie radici. 

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