«Quando fora esce, fa sì adorno viso
che chi l'ascolta è gloria superna
Digna questa perla
esser signora de l'antica Grecia:
Non so se dico Dea over Lucretia».
(Poesia quattrocentesca)
* * *
Un singolare personaggio si aggirava a Napoli, verso la metà del 400, alla corte del re "Magnanimo" Alfonso d'Aragona. Si chiamava Antonio Beccadelli ed era detto il Panormita per le sue origini palermitane (Panormum era il nome di Palermo in età greco-romana). Fu un esponente di spicco dell'Umanesimo, ma soprattutto il fondatore di una delle primissime accademie europee, la prima del Regno di Napoli: la Portucus Antonianus. Un cenacolo di letterati che durante il regno di Alfonso si riuniva tra i portici del famoso Palazzo d'Angiò, in via Tribunali 339, detto anche dell'Imperatore di Costantinopoli, per dar vita ad autentiche maratone di oratoria e poesia che passarono alla storia come l'«ora del libro». Il Panormita era un perfetto padrone di casa. Ai suoi banchetti letterari pasteggiavano accademici e spiriti inquieti, da Pietro l'Aretino a Diomede Carafa, da Tristano Caracciolo a Giovanni Pontano, che seguendo la moda del tempo volle farsi chiamare Gioviano classicizzando il suo nome.
La vera casa del Panormita sorgeva a poca distanza, in via Nilo 26. Ancora oggi uno dei migliori esempi dell'architettura rinascimentale in città. Segretario, biografo e ambasciatore di re Alfonso, il girovago Panormita era arrivato a Napoli nel 1434, nel periodo immediatamente successivo alla morte della regina Giovanna II, quando la corona passò all'erede designato Giovanni d'Angiò.
«Quando la mia Orsa vuol divertirsi mi monta a cavallo; io sostengo il suo peso ed essa il mio. Se ti piace, Orsa, di essere a cavallo, sprona dolcemente e dimena le anche, se no Priapo piegherà sotto il peso. Bada poi di non richiedere di rinnovare la corsa: se anche tu lo volessi, Orsa, io non lo potrei volendolo» (Orsa montata a cavallo, da l'Hermaphroditus)
* * *
La dimora napoletana del Panormita viene spesso associata a un altro luogo della memoria, legato al culto della dea Iside. Quando allievi e archivisti si rivolgevano al grande storico della Napoli greco-romana, Bartolommeo Capasso, per chiedergli dove si trovasse il Tempio di Iside, don Bartolommeo rispondeva indicando «il principio della via dell'Università», dove nel 1891, durante alcuni lavori nel sottosuolo di un palazzo, erano trovati grossi quadroni di tufo che rappresentavano, probabilmente, le fondamenta del tempio. Ma indizi conducono proprio nei sotterranei del palazzo fatto erigere al largo Corpo di Napoli da Antonio Beccadelli; il palazzo del Panormita sorge lateralmente al largo Corpo di Napoli, su via Nilo.
A casa del Panormita si riuniva il fior fiore della bella società napoletana al tempo degli Aragonesi. Scrisse Benedetto Croce che «il movimento intellettuale, che parve come interrotto durante le agitazioni e le devastazioni degli ultimi anni del Trecento e dei primi decenni del Quattrocento, riprese, allargandosi, con Alfonso d'Aragona e più ancora al tempo di Ferrante, che fu quello in cui veramente si formò una cultura e letteratura napoletana, latina e italiana, la quale si diffuse nel patriziato cittadino e tra i baroni». Quei cenacoli culturali non esprimevano solo «mera erudizione e frivolo culto di belle forme vuote» (ancora Croce) ma un serio fervore civile e morale. Dal circolo degli umanisti che sopravvissero alla caduta di Casa d'Aragona sorsero altre menti nobilissime. Da quell'Umanesimo «vennero fuori con impeto poetico i Bruno e i Campanella... E due secoli dopo, Giambattista Vico, straniero ai suoi tempi, sentiva insieme la sua affinità con gli umanisti e i i filosofi del Rinascimento, e ad essi gli piaceva di ricongiungersi come figlio o minore fratello» (Benedetto Croce, Storia del Regno di Napoli).
* * *
Il Panormita - vuoi per contratto, vuoi per vera infatuazione - decantava spesso le lodi del suo protettore, re Alfonso. Al pari di Alfonso, anche la sua amante, Lucrezia d'Alagno, doveva essere celebrata e incensata di poeti di corte. Così, in ode di donna Lucrezia, Beccadelli cantò: Quanto il Re prevale sui nobili e il Sole sulle stelle, tanto Lucrezia sovrasta le ninfe. Erano anni difficili, meglio non contrariare il sovrano aragonese. Lucrezia divenne la musa di poeti e letterati, ma anche di cantastorie e buffoni di corte. Sempre pronti a prostrarsi ai suoi piedi per adulare, attraverso lei, il temuto sovrano.