Quegli "amici geniali" nella Napoli aragonese

Il Panormita personaggio di spicco del Quattrocento

Il palazzo dell'imperatore di Costantinopoli
Il palazzo dell'imperatore di Costantinopoli
Domenica 15 Ottobre 2023, 10:08
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«Quando fora esce, fa sì adorno viso
che chi l'ascolta è gloria superna
Digna questa perla
esser signora de l'antica Grecia:
Non so se dico Dea over Lucretia».
(Poesia quattrocentesca)

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Un singolare personaggio si aggirava a Napoli, verso la metà del 400, alla corte del re "Magnanimo" Alfonso d'Aragona. Si chiamava Antonio Beccadelli ed era detto il Panormita per le sue origini palermitane (Panormum era il nome di Palermo in età greco-romana). Fu un esponente di spicco dell'Umanesimo, ma soprattutto il fondatore di una delle primissime accademie europee, la prima del Regno di Napoli: la Portucus Antonianus. Un cenacolo di letterati che durante il regno di Alfonso si riuniva tra i portici del famoso Palazzo d'Angiò, in via Tribunali 339, detto anche dell'Imperatore di Costantinopoli, per dar vita ad autentiche maratone di oratoria e poesia che passarono alla storia come l'«ora del libro». Il Panormita era un perfetto padrone di casa. Ai suoi banchetti letterari pasteggiavano accademici e spiriti inquieti, da Pietro l'Aretino a Diomede Carafa, da Tristano Caracciolo a Giovanni Pontano, che seguendo la moda del tempo volle farsi chiamare Gioviano classicizzando il suo nome.

La vera casa del Panormita sorgeva a poca distanza, in via Nilo 26. Ancora oggi uno dei migliori esempi dell'architettura rinascimentale in città. Segretario, biografo e ambasciatore di re Alfonso, il girovago Panormita era arrivato a Napoli nel 1434, nel periodo immediatamente successivo alla morte della regina Giovanna II, quando la corona passò all'erede designato Giovanni d'Angiò.

Dopo la vittoria degli Aragonesi sugli Angioini, Beccadelli divenne consigliere culturale del re Magnanimo. Aveva scritto anni prima una raccolta in latino di epigrammi dai contenuti erotici piuttosto audacim l'Hermaphroditus. Eccone un gustoso assaggio:

«Quando la mia Orsa vuol divertirsi mi monta a cavallo; io sostengo il suo peso ed essa il mio. Se ti piace, Orsa, di essere a cavallo, sprona dolcemente e dimena le anche, se no Priapo piegherà sotto il peso. Bada poi di non richiedere di rinnovare la corsa: se anche tu lo volessi, Orsa, io non lo potrei volendolo» (Orsa montata a cavallo, da l'Hermaphroditus)

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La dimora napoletana del Panormita viene spesso associata a un altro luogo della memoria, legato al culto della dea Iside. Quando allievi e archivisti si rivolgevano al grande storico della Napoli greco-romana, Bartolommeo Capasso, per chiedergli dove si trovasse il Tempio di Iside, don Bartolommeo rispondeva indicando «il principio della via dell'Università», dove nel 1891, durante alcuni lavori nel sottosuolo di un palazzo, erano trovati grossi quadroni di tufo che rappresentavano, probabilmente, le fondamenta del tempio. Ma indizi conducono proprio nei sotterranei del palazzo fatto erigere al largo Corpo di Napoli da Antonio Beccadelli; il palazzo del Panormita sorge lateralmente al largo Corpo di Napoli, su via Nilo.

A casa del Panormita si riuniva il fior fiore della bella società napoletana al tempo degli Aragonesi. Scrisse Benedetto Croce che «il movimento intellettuale, che parve come interrotto durante le agitazioni e le devastazioni degli ultimi anni del Trecento e dei primi decenni del Quattrocento, riprese, allargandosi, con Alfonso d'Aragona e più ancora al tempo di Ferrante, che fu quello in cui veramente si formò una cultura e letteratura napoletana, latina e italiana, la quale si diffuse nel patriziato cittadino e tra i baroni». Quei cenacoli culturali non esprimevano solo «mera erudizione e frivolo culto di belle forme vuote» (ancora Croce) ma un serio fervore civile e morale. Dal circolo degli umanisti che sopravvissero alla caduta di Casa d'Aragona sorsero altre menti nobilissime. Da quell'Umanesimo «vennero fuori con impeto poetico i Bruno e i Campanella... E due secoli dopo, Giambattista Vico, straniero ai suoi tempi, sentiva insieme la sua affinità con gli umanisti e i i filosofi del Rinascimento, e ad essi gli piaceva di ricongiungersi come figlio o minore fratello» (Benedetto Croce, Storia del Regno di Napoli).

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Il Panormita - vuoi per contratto, vuoi per vera infatuazione - decantava spesso le lodi del suo protettore, re Alfonso. Al pari di Alfonso, anche la sua amante, Lucrezia d'Alagno, doveva essere celebrata e incensata di poeti di corte. Così, in ode di donna Lucrezia, Beccadelli cantò: Quanto il Re prevale sui nobili e il Sole sulle stelle, tanto Lucrezia sovrasta le ninfe. Erano anni difficili, meglio non contrariare il sovrano aragonese. Lucrezia divenne la musa di poeti e letterati, ma anche di cantastorie e buffoni di corte. Sempre pronti a prostrarsi ai suoi piedi per adulare, attraverso lei, il temuto sovrano.

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L'erede spirituale di Antonio Beccadelli fu Giovanni Pontano, che prese il suo posto alla guida dell'Accademia Antoniana. Fu lo stesso Beccadelli a designare colui che da giovane era stato il suo segretario. Pare che nell'ultima fase della sua vita, quando gli allievi si rivolgevano al maestro per chiedergli lumi, informazioni o consigli, il Panormita rispondesse loro sempre allo stesso modo: «Ite ad Jovanium». Di Giovanni (o Gioviano) Pontano, poeta, letterato, astronomo, cartografo e maestro assoluto dell'umanesimo napolatano, va ricordato che fu per gran parte della sua vita al servizio dei sovrani aragonesi, fino a cadere in disgrazia quando re Alfonso II - di cui era stato precettore - fu esiliato da Napoli. Celebrato dopo la morte come campione del primo vero Rinascimento all'ombra del Vesuvio, fu accusato in vita di essere un voltagabbana, dal momento che scelse di parteggiare per il re di Francia Carlo VIII, scelta che di fatto lo obbligò ad abbandonare l'attività politica per dedicarsi esclusivamente ai suoi studi. Ma questo letterato che amò la sua città adottiva (Napoli) più della sua terra d'origine (Cerreto di Spoleto) era un uomo dai poliedrici e robusti interessi, che spaziavano dall'astrologia all'etica, dalla retorica alla botanica. Al suo controverso rapporto con Alfonso II (figlio di Ferrante) Pontano dedicò, sotto forma di allegoria, un bizzarro «dialogo dell'ingratitudine», chiamato Asinus. Vi compare un protagonista impazzito d'amore per un asino, che, in compenso delle sue moine, gli morde entrambe le mani, facendolo rinsavire: metafora letteraria, appunto, dell'ingratitudine del sovrano per colui che fu il suo maestro. Amava così tanto, Giovanni Pontano, quel fazzoletto di strade tra via Tribunali e la statua del Nilo che scelse anche di viverci, rilevando dal suo predecessore Beccadelli sia la presidenza dell'Accademia Antoniana (che da allora si chiamò Pontaniana) sia l'abitazione successivamente distrutta per far spazio all'attuale scuola Diaz. Un cenacolo di intellettuali - le migliori menti dell'umanesimo napoletano - che a casa Pontano banchettavano disquisendo di spedizioni oceaniche e declamando versi latini. Erano gare di erudizione, certo, ma pare che si divertissero un sacco.
 

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