L’albergo dei poveri di Napoli, nella piazza che ha il suo nome, fu sogno caritatevole di re Carlo III. «Quello di Maxim Gor’kij no: i suoi ospiti dovevano pagare Kostylev, il proprietario del dormitorio». Il bestiario che li popolava, tuttavia, doveva essere simile: «Un concentrato di destini avversi, di perduti, ultimi della terra, prostitute, ladri, alcolisti, presunti nobili decaduti, ex attori in disgrazia, vagabondi, straccioni», un microcosmo di vite e di relazioni che si allacciano e si slacciano, spinte dal bisogno e dall’interesse temporaneo, fra invidie, tradimenti, suicidi, delitti... senza una vera trama che tutto e tutti tenga avvinti. La drammaturgia fu scritta nel 1902 da Gor’kij, «orfano, vagabondo, solitario, scrittore autodidatta e proletario», spiega Massimo Popolizio, regista e artefice di un allestimento imponente, «da teatro pubblico», con 16 interpreti in scena, da mercoledì al Mercadante, dopo la prima nazionale all’Argentina di Roma e quasi un mese al Piccolo (entrambi in veste di produttori). «L’albergo dei poveri» resterà in replica fino a domenica 14.
Dettaglio cruciale dell’operazione è l’adattamento drammaturgico di Emanuele Trevi.
Temi, caratteri, domande eterne che il testo pone? «Si parla di Dio. Dice un personaggio: “Non trovi che esiste un abisso tra ciò che sai di lui e ciò che vedi nel mondo?”. E Luka: “Io di Dio non so niente, mi limito a credere». Ecco, accenniamo a questo Luka, personaggio misterioso - da lei interpretato - che si aggira nell’«Albergo». Può sembrare uno jedi di «Star Wars». «È una sorta di guru, con anelli e barba. Qualcosa su Dio la sa. La verità in qualche modo lo ha toccato ma, alla fine, si dimostra un divertente cialtrone, che tenta di infondere speranza in un universo disperato. Nessuno, infatti, la raccoglie».
Com’è noto, Gor’kij è un cognome inventato. Significa «l’amaro»: «E il suo stanzone dei reietti lo è al massimo, governato com’è da una verità: la coscienza è dei ricchi. I poveri non possono permettersela, perché muoiono di fame». Tra i tanti, c’è un attore alcolizzato: «Sì. Luka gli offre una occasione di salvezza: “Conosco un luogo dove puoi curarti”. E l’altro: “Dov’è?”. “Te lo dirò, poi. Tu, intanto, smetti di bere”. Ma lui, quando scopre che quel posto non esiste, si impicca. E dunque: la verità... è giusto conoscerla? Aiuta a vivere? Domande importanti, non dettate da filosofi, ma da puttanieri, privi di futuro. Il rimando naturale è a Dickens, a Hugo».
Nell’«Albergo dei poveri» c’è anche una ragazzina... «che si immerge nella lettura di romanzetti d’amore, in stile Liala, per sopravvivere nell’inferno». Oppure, un barone decaduto: «Tutti ignorano se lo sia veramente; ma lui ci crede. E questo è sufficiente. E, dunque: piuttosto che vivere, è meglio immaginarla, la vita?». Gor’kij non dà risposte: «No. Getta in platea semi, sperando siano raccolti. Nel suo “albergo” c’è gente che paga e, forse, non ha colpa da espiare. È ancora Luka a proporre: “Spesso uno paga per quello che fa, ma altri rendono più di quanto dovrebbero. Chi tiene questo libro dei conti?”. E, mi creda, a ogni replica, quando pronuncio questa battuta, non riesco a non pensare a Gaza, alla Palestina». Oltre un secolo dopo la stesura del dramma, gli alberghi dei poveri, i bassifondi, sono aumentati, non diminuiti: «È mutato il contesto della povertà... migrazioni di massa, miseria indotta dal mondo globalizzato... ma la sostanza non cambia. Gli ultimi sono ancora ultimi».