Cosa succede quando chi ha lottato, senza vincere, contro le ingiustizie del mondo si ritrova, dopo 30 anni, a vedere di nuovo da vicino le sofferenze e le umiliazioni degli ultimi? Nicola ha da poco finito di scontare una lunghissima pena, era stato arrestato negli anni ’70 come appartenente ai Nuclei armati proletari. Finisce su un’isola senza nome (ma si capisce che è Procida); nell’incontro-scontro con la realtà del luogo si imbatte nella protesta di alcuni pescatori contro le speculazioni dei grossisti: si riaccende la rabbia e la passione di un tempo, così va alla ricerca dei vecchi compagni di lotta perché lo aiutino nell’ultima avventura. Si chiama “La carna trista” (Castelvecchi, pagg.175, euro 18) il nuovo romanzo di Mario Visone, una vita in politica, oggi docente, al suo terzo volume. Il titolo viene da un detto diffuso in diverse regioni del Sud Italia che qui il protagonista ascolta in Salento: “La carna trista nun la vòle né u diàue e mmanghe Criste”. Chi è questa “carna trista”? Gli sfruttatori o gli sfruttati, o ancora chi tenta, in modo velleitario, perché poi il sistema si mette inevitabilmente contro, di cambiare il mondo?
La storia è densa di riferimenti alla letteratura e alla storia italiana nel secondo ‘900: Pier Paolo Pasolini, James Joyce, Cesare Pavese, mentre i compagni di Nicola hanno nomi da antologia: Carlo Lorenzini, che poi era Collodi, Umberto Poli, il vero nome di Saba, più lo storico Alberto Pincherle e Ezio Comparoni (lo scrittore Silvio D’Arzo).
Il romanzo è scritto con una tecnica di scrittura continua, con i dialoghi confusi nel testo della voce narrante; ha un incipit potentissimo, capace di immergere il lettore nella trama con forza: «Ricordo tutti i giorni che ho trascorso. Ricordo cos’è il pudore e lo tengo stretto. Ricordo il giorno perfetto, gli inizi di luglio dell’estate piovosa, il penitenziario e il nome del vicebrigadiere che me l’ammazzò».