«Ricordiamo Beckett, profeta di questi tempi»

La lettera di un nostro lettore sullo scrittore irlandese

Samuel Beckett
Samuel Beckett
Mercoledì 13 Dicembre 2023, 16:11
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Il mio incontro con Samuel Beckett è stato un atto di eccezionale seduzione. Uno scrittore che, insieme a Luigi Pirandello, ha saputo descrivere nella sua interezza il XX secolo, rivelandosi capace di preannunziare le terribili angosce dell’Uomo contemporaneo. Dalla sua produzione che va dalla narrativa al teatro, dal cinema alla televisione, dalla danza alla poesia e ai media, emerge un Autore puro che ha scavato nell’intimo più recondito dell’Uomo e che vede sempre possibile un barlume di fiducia per un mondo migliore, come si percepisce in “Finale di partita”, in “Aspettando Godot”.

Abbiamo, quindi, a che fare con uno scrittore tremendamente profetico e la cui identità si svela nell’emblematica battuta di “Commedia”: “Ma mi ascolti? C’è qualcuno che mi ascolta? C’è qualcuno che mi guarda? C’è qualcuno che si dà il minimo pensiero di me?”. Una struggente invocazione che raccoglie l’infaticabile ricerca della centralità dell’Uomo in Beckett. Una condizione perpetua dell’essere vivente, scaturita dai suoi interessi per la Filosofia di Bruno e Vico, dalla cultura Zen e dalla lettura di Sant’Agostino, dalla passione per Dante e Leopardi, all’amicizia con Joyce e amore per la sua verde Irlanda ed ancora per il Rinascimento italiano.

Nel teatro di Zeami e in quello di Beckett niente accade, tutto è già accaduto in modo semplice, ordinario, anche se Theodor Wiesengrund Adorno ha scritto: “Ogni tentativo di interpretazione rimane inevitabilmente in arretrato rispetto a Beckett: il suo teatro, proprio perché si limita ad una realtà empirica infranta, guizza oltre questa e rimanda ad una interpretazione proprio per la sua natura enigmatica”.

Attualmente Beckett più che mai si presta ad ulteriori studi, quelli volti a raggiungere le più segrete pieghe dell’anima. Tante le sue profetiche visioni che si stanno, purtroppo, avverando (solitudine urbana, feti buttati nelle discariche, smarrimento di sé, diffusa incomunicabilità, insoddisfazione e noia, aumento dei senza tetto e dei poveri, catastrofi imminenti, minaccia di un nemico invisibile, di una incombente desertificazione, di una possibile terza guerra mondiale, con attacchi nucleari).

Un panorama agghiacciante, ma effettivo.

Nelle opere beckettiane, pur dominando il bianco che evoca tele di Lucio Fontana o di Piet Mondrian, di Angelo Savelli o di Raimund Girke, come stabilito, d’incanto tutto si muove nella presenza o nell’assenza di un impercettibile gesto dei personaggi che spesso “restano rigorosamente di faccia e immobili dal principio alla fine dell’atto”. Ed allora, prendono forma immagini che si sovrappongono e si dissolvono per riapparire ad ogni istante, tra una pausa breve ed una lunga. Tra il Silenzio, l’Urlo ed il Bisbiglio. Le storie o non storie si rivelano a mano a mano intrise di serenità esistenziale che attraversa una moltitudine di allusioni. Un flusso perenne dove scorrono le nostre storie, nel bene e nel male.

Dall’inizio alla fine di ogni pièce è un ripercuotersi, un andirivieni, ovvero uno scenario perpetuo, in cui si ritorna sempre al punto di partenza. Anzi, l’inizio è la fine: “Nascere fu la sua morte”. Sempre pieni di humour le sue creature, seppure in devastante castigo, appaiono pronte a dare un senso alla vita.

Leggiamo e vediamo personaggi assurdi e surreali, come le coppie Wladimiro-Estragone, Pozzo-Luky, Hamm-Clov, Nagg-Nell, Winnie-Willie, Krapp-Magnetofono, Mercier-Camier, Murphy, Molloy, Malone, Watt, Joe e l’innominabile, collocati in una perenne penitenza purgatoriale, ficcati nel ventre della terra, in una tana o peggio sepolti in bidoni dei rifiuti, in giare e cilindri fino a scomparire per lasciare in scena solo una “bocca” (“Non io”), solo uno straziante vagito (“Respiro”). Eppure, davanti ad una tale desolazione, le amatissime creature beckettiane sono sempre ricche di voglia di vivere, di parlare e dire di più ad altri o a sé stessi.

Oggi non si dialoga più: l’Uomo, nonostante la globalizzazione, la possibilità di correre sulle autostrade telematiche, è caduto nel più profondo baratro della solitudine, rimasto da solo a comunicare con un accecante display. Figura nobile quella di Beckett, fine intellettuale e sempre prossimo agli altri tanto da divenire un santo laico.

Alfred Simone, autorevole critico teatrale francese, lo ha definito un “novello San Francesco”. Intanto, nel sepolcreto beckettiano le disarmanti creature sostano in una perenne penitenza purgatoriale: eppure, malgrado le atroci lacerazioni, si svelano piene di spirito e avide di vivere. Quanta tenerezza in quelle preferite creature che, nonostante il loro tormento, eternamente cantano “Giorni felici”. Di più. I sopravvissuti in Beckett parlano senza sosta (a volte pregano), dicono sempre di altri “giorni divini”, un po’ come nelle opere di Leopardi o di Pascoli, in cui emerge lo stupore del fanciullino per le piccole cose del quotidiano. Quanta poesia ed esaltazione della Vita e dell’Intelligenza dell’uomo traboccano in quei vecchi, dignitosi e colti clochard, in quelle pagine, battuta dopo battuta, si intravede un accenno di Speranza, nonostante il diffuso senso di vuoto, nonostante la nostra fragilità e tristezza.

In “Finale di partita” gli anziani Nagg e Nell, dai famosi bidoni della spazzatura, benché mozziconi umani e prossimi alla fine, hanno tanta voglia di rievocare i bei ricordi andati, raccontare barzellette, litigare per un biscotto e di… “scopare”! Mai un rimpianto per la giovinezza, mai una restituzione di un frammento di Tempo.

Altrettanto Krapp: “Dopo mezzanotte. Mai sentito tanto silenzio. La Terra potrebbe essere disabitata. (Pausa). Qui termino questo nastro. Scatola… (pausa)… tre, bobina… (pausa)… cinque. Forse i miei anni migliori sono finiti. Quando la felicità era forse ancora possibile. Ma non li rivorrei indietro. Non col fuoco che sento in me ora. No, non li rivorrei indietro”.

Viepiù. Nelle condizioni di day after postatomico, come quelle patite dai protagonisti in “Finale di partita”, Clov al termine dello spettacolo non va via, non esce dal bunker, rimane “immobile” sulla soglia della porta creando non poche perplessità nello spettatore: abbandonerà Hamm? Al riguardo, non ho dubbi: Clov, sebbene avvolto nell’angoscia di quella opprimente non vita al chiuso, da buon servo di scena “resterà” per sempre nella stanza-cranio con Hamm. Pertanto, anche se disperati, immersi nel “fallimento non importa”, non si può abbandonare la lotta, non si può andare via… “Aspettiamo Godot”. Nell’attesa, con immensa trepidazione, insieme ad Estragone e Vladimiro, saremo lieti di vedere e ascoltare il ragazzoangelo: “il signor Godot non verrà questa sera… ma verrà… sicuramente domani”. E così anche noi, al sorgere della luna, ricordando il buon Ciaula, sotto l’albero di Giacometti, benché rinsecchito, con appena “due o tre foglie” aspetteremo la radiosa alba futura. Saremo felici.

Antonio Borriello

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