Bizia, trame (femminili) sotto processo: la personale dell'artista napoletana contro gli stereotipi di genere

Un percorso creativo curato da Sveva Ventre che tra quadri e installazioni site specific intreccia grovigli esistenziali e ricerca di senso e libertà nell'Atelier realizzato nella casa di famiglia al Parco Margherita

Un'opera in mostra
Un'opera in mostra
di Donatella Trotta
Giovedì 1 Febbraio 2024, 23:42
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Mappe emozionali. A dispiegare, in grovigli di corpi di donne azzurri come il mare e screziati d’oro, il fluire metamorfico di stati d’animo che segnano l’interiorità femminile: dagli abissi della caduta al peso di fardelli che piegano la schiena, dal raccoglimento della meditazione e del riposo fino allo slancio ascensionale verso la libertà. Il grande acrilico su tela che accoglie il visitatore all’ingresso dell’Atelier di Bizia Cesarano, dove è in corso la mostra personale site specific dell’artista napoletana, classe 1994, dal  titolo «Trame sotto processo» (a cura di Sveva Ventre, con l’assistenza di Eduardo Scarfoglio: finissage oggi, 2 febbraio, in via del Parco Margherita 18), evoca in apertura del percorso espositivo identità plurime: come il labirinto identitario di multipli del poeta portoghese Fernando Pessoa, che con i suoi molteplici eteronimi si definiva «un gomitolo ingarbugliato dall’interno». E non a caso l’opera fronteggia un altro dipinto densamente allegorico ma stavolta dai cromatismi terragni, dove il groviglio materico di una grande sfera dal fitto ordito incombe, su fondo nero, su esili linee spezzate. Quasi a suggerire un itinerario di ricerca non (sol)tanto estetica quanto psicanalitica. E di senso.

«Tutto è partito da lì: da quella “palla” che sentivo come un macigno sulle spalle, nella fatica di Sisifo di uscire dal giogo dei ruoli imposti dalle convenzioni sociali e dalla mia appartenenza a alla libertà e creatività femminili», spiega Bizia, nome d’arte per Fabrizia Cesarano: che porta il nome proprio del suo compianto zio, Fabrizio Mangoni di Santo Stefano - brillante architetto, urbanista e comunicatore multimediale con l’estro delle similitudini tra dolci e persone scomparso il 15 luglio 2023 – al quale era profondamente legata. «Una figura preziosa di riferimento, per me: come mia nonna, che era sua sorella, con la quale ho trascorso stagioni cruciali della mia infanzia e adolescenza, proprio in questa casa di famiglia che dal 2021 ho scelto di far diventare il mio Atelier», aggiunge l’artista, che è anche giurista, ricercatrice nel campo della rigenerazione urbana e dei rapporti tra comunità e spazi.

Traiettorie parallele che si intersecano, nell’inquieta quest di una giovane e talentuosa donna in pacifica rivolta contro le sovrastrutture oppressive del suo ambiente aristocratico e altoborghese, pure a lunghe esperienze “toste” di volontariato laico in Madagascar al fianco dei padri Carmelitani. E il cammino artistico, nato sette anni fa da una profonda necessità interiore, per dirla alla Rainer Maria Rilke, ossia quando Bizia era poco più che ventenne, è allora l’ulteriore tassello di un mosaico di complessità con cui l'artista fa i conti e si mette autenticamente in gioco, senza maschere, con disarmante sincerità e con trasparente onestà intellettuale.

Un tassello partito dalla riconfigurazione del territorio natìo, dove attecchiscono le radici che le hanno dato le ali (Napoli, il Vesuvio, gli spazi architettonici e naturali di una città porosa come la sensibilità vibratile dell’artista); e approdato, in questa fase - affinata anche da un percorso di anni di analisi freudiana - nell’intreccio di trame e orditi pittorici intesi sia come “grovigli” sia come relazioni, connessioni e proiezioni che scandiscono anche le altre opere in mostra: i corpi fluttuanti di «Dipendenze», acrilico su sabbia e tela su fondo notturno blu ma anche quelli luminosi, dorati e iridescenti di «Tutti i modi in cui vorrei amare», in delicato e armonico equilibrio di contatti fisici su una celestiale campitura turchese; l’ampio e metaforico dittico blu elettrico - specchio del colore dei sogni di Mirò - dell’olio e acrilico su tela «Inno alla libertà/Decompressione», accanto alla danza metamorfica di figure femminili nude senza volto, cangianti secondo l’incidenza della luce sul grigio argento delle loro membra, a connotare il passaggio (intergenerazionale) dei ruoli che una teca sottostante, con le edizioni rilegate di fascicoli de «La cucina Italiana» raccolti negli anni ’50 dalla nonna, cristallizza negli stereotipi degli angeli del focolare, massaie modello e mogli silenziose e accudenti, che devono essere “belle” anche quando sono sportive…

«Ho cercato di veicolare altri sguardi, prospettive differenti oltre le mentalità dominanti che ci ingabbiano in un processo di senso, soggettivo e collettivo, non giudicante ma condiviso con altri, in un momento in cui la civiltà sembra aver perso, nel vuoto di una sfrenata competizione individuale, il senso della comunità. Che in Africa invece malgrado tutto resiste, fortissimo», dice Bizia. E allude allora a una gabbia anche la grande scultura sferica in ferro intrecciato con foglia d’oro applicata, che troneggia, al centro di un’altra stanza dal sapore giapponese di questa casa-museo Atelier d’artista, con i suoi pieni e vuoti, in un gioco di luci e ombre che nel vicino quadro «Proiezioni», acrilico e foglia d’oro su tela di Napoli rovesciata, con uno sfondo dal caldo colore tabacco, riflette le trame della sfera. E mentre un grande arazzo vagamente nipponico (ancora un acrilico di due metri per 2,70 con giochi ideografici di oro e nero su juta e tela) interpella lo spettatore con il suo titolo «Sai vedere tutto insieme?», gli «Spazi immaginati» di un altro quadro con tecnica acrilica e foglia d’oro su tela amplificano, sullo sfondo nero che esalta i frammenti d’oro, certe venature preziose che ricompongono il vasellame rotto con la tecnica giapponese del Kintsuji.

Suggestioni. Rimandi. Rinvii polisemici che quest’artista giovane ma non inconsapevole, con un bagaglio già ricco di numerose collettive in Italia e in Spagna, impegnata fra il resto anche nel reparto di Oncologia Pediatrica dell’Ospedale “Pausilipon” con il suo progetto “Reparto Aperto” realizzato con il sostegno della Fondazione Santobono Pausilipon, dispiega con i suoi interrogativi esistenziali che vanno oltre l’autoreferenzialità narcisistica, per interpellare chiunque si ponga in ascolto del mondo. Lo dimostra, a conclusione del percorso, una installazione potentemente simbolica, intitolata «Spazio condizionato», che - al centro di una piccola stanza dove c’è soltanto un divano di fronte alla scultura - raffigura nella penombra una serra-casa aperta, dal telaio in alluminio verniciato in oro, il tetto spiovente con un lucernaio spalancato. Dentro, su un pavimento di terra lavica nera, svettano verso l’alto spighe vere di varie altezze, essiccate e dorate. Simboli di vita radicata nell’humus terrestre, che aspira al soffio della trascendenza oltre la struttura che le ingabbia.

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