Domani saranno cento anni dalla nascita di Paolo Volponi: uno dei pochissimi scrittori italiani di romanzi che si possa definire allo stesso tempo profondamente italiano e profondamente europeo. E forse bisognerebbe raccontare di come Volponi credette nell'idea, che era di buona parte della sinistra italiana dal dopoguerra fino agli anni Settanta e che comprendeva tra gli altri Calvino e Ottieri, di una società più giusta ed equa ma partendo dal duro lavoro industriale e dalla modernizzazione tecnica; raccontare che lavorò a lungo per Adriano Olivetti, dentro l'utopia di uno sviluppo del capitalismo che creasse profitto, però non ai danni dei lavoratori ma a profitto dei lavoratori; e di come a un certo punto capì, drammaticamente, che l'utopia di unire lo sviluppo del capitalismo con una vita più umana era tramontata.
Ma tutto ciò è lontanissimo, materia per storici che siano capaci di rispettare il dolore dei sommersi, mentre invece la sua opera di scrittore è vicinissima a chi interroga i libri come oracoli: ma solo a chi interroga libri che, come i suoi, vivono di eruzioni e inabissamenti che dissestano con ferocia sublime e oscura la superficie della vita e accendono l'incendio estetico della letteratura.
Chi tra gli scrittori di romanzi italiani della sua generazione può allineare capolavori assoluti come Corporale e La macchina mondiale, libri straordinari come Memoriale e Le mosche del capitale, e opere potenti come Il sipario ducale e Il pianeta irritabile?
Volponi non somigliava e non somiglia a nessuno.
In Corporale un uomo afflitto dal mondo ma dentro l'agire del mondo, si isola in un luogo del centro Italia per prepararsi all'esplosione di una guerra nucleare: qualcosa che si ritrova in molti romanzi americani; nella Macchina mondiale un inventore «pazzo» di origine operaia e contadina sogna un'utopia tecnologica, e in Memoriale un operaio che ama la fabbrica entra in conflitto col suo stesso amore: come in molte opere del grande Platonov; nelle Mosche del Capitale un intellettuale, che lavora nel cuore del meccanismo culturale di una grande industria italiana di automobili, e che fantastica di cambiarla e cambiare la vita con la cultura, scopre di essere intrappolato come una mosca nella ragnatela: di nuovo come in molti romanzi americani.
Ma queste assonanze, che riguardano i «temi», dicono solo che Volponi stava al centro della contraddizione della contemporaneità ascoltando e guardando, ma non spiegano come in lui la proliferazione del raccontare si accende nello scontro ambiguo tra il sogno e la realtà, uno scontro le cui ferite sono i luoghi attraversati dalla prosa di Volponi: una prosa che è insieme la ferita e la possibile-impossibile cura, e che fa del piccolo mondo romanzesco italiano un mondo immenso senza tradire né la realtà né la verità.
La sua scrittura era imparentata con la poesia, e come dimostra il volume delle Poesie appena uscito per Einaudi, il poeta era l'altro lato del prosatore: in Con testo a fronte e in Nel silenzio campale Volponi sabotava la grande poesia classica italiana dall'interno, la sovvertiva con un furore post-gaddiano vicino per visionarietà concreta a Zanzotto più che a chiunque altro, inventava una poesia-racconto come un obelisco dissepolto su cui il passato è decifrato come futuro e viceversa: come scrisse Raboni in un suo saggio, che il lettore trova nel citato libro delle Poesie, Volponi ci appare non solo come il «più grande, forse, tra i prosatori italiani del secondo Novecento», ma anche «uno dei più forti e originali scrittori in versi» della sua generazione.
Un classico? Oh, no: piuttosto un extra-classico! Ma per un tempo, il nostro, che forse non ha bisogno né di extra-classici né di leggere.