das Zeichen

das Zeichen
Martedì 5 Luglio 2016, 16:53 - Ultimo agg. 17:23
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Ha attraversato Roma nel secondo Novecento riuscendo a far convivere tutte le epoche della città: misurandole col proprio corpo. Inscindibile dalla sua poesia. Valentino Zeichen era un poeta atipico, “a parte” – come scrisse anni fa Giulio Ferroni –. Veniva da lontano a scegliere Roma e i suoi margini, per far convivere la storia e la geografia, cucendo gli attici con le fogne della città, scegliendo la provvisorietà di una baracca senza mai smettere di vestirti di nuovo.  Era alto e da sopra guardava le cose del mondo, il suo era uno sguardo aereo che passava sopra le teste di tutti, i tetti e i tramonti, le rovine, le strade e i monumenti. La distanza non lo rendeva immune dalle passioni e dai desideri che pure abbondano nei suoi versi. Zeichen inchiodava alla sua metrica il mondo che gli scorreva davanti senza la compostezza del ruolo, aveva ironia - che è stile, oltre che sentimento di forza - e abitudine a smarcarsi dalla retorica, caratteristiche che gli consentivano di fare poesia anche stirando una camicia. Sospeso nel cielo di Roma, con i ricordi persi a Fiume, mutando si disperdeva e disperdendosi nella storia urbana si dava una identità, pronto a mutare nella poesia successiva. Era immarcabile fin dalla sua prima raccolta di poesie “Area di rigore” (1974), dove la metafora dello spazio calcistico rimandava a una dimensione del giudizio, del processo, che bordeggia l’aria di Franz Kafka. Inseguiva la gloria dei grandi poeti, giocando con i classici Catullo e Marziale, passando per Petrarca. Zeichen in tedesco significa segno, è quello che ha cercato di lasciare, aggirandosi, lieve, intorno alle nostre vite, un anatomopatologo delle rovine, che usava per scorgerci il futuro. Illuminista e romantico, scrivendo della Stazione Termini, del Colosseo o di una Europa dell’altrove, e iscrivendoci al suo mondo, un mondo complicato capace di opporsi "all'indistinta cecità". 
 
Molte donne ospitano negli occhi
dei piccoli musei preistorici:
microcosmi di eventi universali
che fluttuano nell’acquario dell’iride;
animali e vegetali ormai fossili,
ominidi di altre ere;
embrioni di specie future
orbitano intorno alle loro pupille
in un ballo che li trascina via.
La vista dell’inconscio è insostenibile,
si arretra abbassando lo sguardo: è
d’obbligo l’inchino, porgendo
infinite scuse alle signore. 
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