Teatro San Carlo di Napoli, Daniela Ciancio in sartoria: «Come tornare a casa»

«Dopo il liceo al Pansini andai a Roma perché il cinema si fa lì ma i miei figli sono cresciuti qui, il filo non si è mai interrotto...»

Daniela Ciancio
Daniela Ciancio
di Donatella Longobardi
Domenica 5 Maggio 2024, 09:00 - Ultimo agg. 6 Maggio, 20:16
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«Tornare a Napoli e al San Carlo è stato come tornare a casa anche se manco da circa vent’anni quando feci una “Cavalleria rusticana” con Roberto De Simone... Tutto era iniziato qui quando, dopo gli studi all’Accademia di Belle Arti, venni a lavorare come assistente di un fantastico tagliatore napoletano, Lorenzo Zambrano». Da tre mesi Daniela Ciancio è la nuova responsabile della sartoria del San Carlo. Napoletana, cinquantanove anni appena compiuti, una vita divisa tra cinema, teatro e tv, due David di Donatello (per i costumi di «Il resto di niente» della De Lillo e di «La grande bellezza» di Paolo Sorrentino), membro dell'European Film Academy, dell'Accademia dei David e, dal 2014, della Academy of Motion Picture Arts and Sciences che assegna gli Oscar, la costumista si è subito gettata nel lavoro dietro le quinte per preparare «Gioconda» al fianco di Christian Lacroix. E poi, nelle stanze della sartoria al quarto piano, tra appendiabiti colmi, scatole di scarpe e copricapi, ha provato con i ballerini i tutù per «Romeo e Giulietta», Un'attività intensa, divisa su più fronti, che sembra non spaventarla. Perché – dice - «lavorare al San Carlo è una sfida molto stimolante, è un mondo pazzo e magico quello del teatro, ma anche quello del cinema lo è altrettanto. Una bellissima gabbia di matti. Io ci sono abituata e forse non saprei farne a meno».

Ma meglio il teatro o il cinema? 
«Sono mondi diversi.

Sui set si è sempre sotto stress, in teatro le tensioni sono più diluite. Come sono diversi i modi di intendere un costume. Al cinema si curano i più piccoli dettagli, in teatro si deve tenere conto della distanza che “divora” tutto sopratutto in uno spazio grande come il San Carlo. E sono diverse anche le elaborazioni dei materiali».

Dunque non esiste una ricetta unica. 
«Il percorso è comune: si vara un progetto, si studia il contesto magari leggendo come un romanzo il testo da mettere in scena ed emozionarsi. Poi si prepara un budget e si passa alla fase operativa. A me piace controllare tutto. Perché credo che il costume debba immediatamente parlare di chi lo indossa, rendere il personaggio subito leggibile da parte del pubblico, sia che si tratti di una ambientazione storica che ai nostri giorni».

C’è chi critica gli abiti moderni in scena dicendo che possono essere acquistati ai grandi magazzini. 
«Non è così semplice. Anche se può capitare che ciò avvenga. Il costume è legato al mondo che si deve raccontare. Io cammino per strada curiosando, faccio sempre tante foto, poi capita che utilizzi quella o questa idea rubata tra la folla».

E il rapporto con i registi? 
«Ci deve essere sintonia, fiducia. E si deve condividere lo stesso progetto creativo. Un buon team garantisce un lavoro comune sereno. Da questo punto di vista lavorare sempre con le stesse persone può essere un bene, ma cambiare è stimolante».

Lei ha lavorato anche molto all’estero, negli Usa ha firmato i costumi di una serie molto nota, «Mars». 
«E mi sono molto divertita a inventare gli scafandri per gli astronauti, dovevano apparire tutti uguali anche se gli attori all'interno avevano fisici diversi. La Nasa dette l’approvazione».

E con Paolo Sorrentino? 
«Lo adoro! Con lui si controlla tutto, anche l'orecchino di una comparsa! Per “La grande bellezza” è stato un lavoro infinito: giravamo di notte, di giorno dovevamo preparare tutto. Ma tanti sacrifici sono ripagati dal successo».

Dei costumi della «Grande bellezza» colpiscono le colorate giacche di Servillo-Gambardella. 
«E qui torniamo ad un altro argomento che spiego spesso agli allievi dei miei master. Il costume è legato alla fisicità di chi lo indossa, in questo caso Toni Servillo, lo stesso attore che, sempre per Sorrentino, avevo vestito nel “Divo”. Ebbene, nelle due pellicole lo stesso corpo sembra diverso. Per il ruolo di Andreotti gli avevo fatto indossare pantaloni col taglio anni Quaranta, larghi, pesanti. Come Jep era un napoletano star dei party romani e dunque indossava le giacche perfette tagliate da grande sartoria napoletana».

Ma la sartoria napoletana si ritrova anche nei costumi teatrali? 
«Ma certo! C’è sempre un lato artigianale che ci ha resi famosi nel mondo e che va tutelato. Penso ad artigiani-artisti che sono una caratteristica molto particolare delle nostre sartorie, anche qui in teatro. Certo, il mondo di Piero Tosi, il grande costumista mio mentore al Centro Sperimentale a Roma, non esiste più. E neppure quei budget. Dobbiamo cambiare senza perdere però la qualità del prodotto». 

Ha nuovi progetti? 
«Col San Carlo stiamo preparando la prossima stagione e vari allestimenti. Al cinema farò i costumi del nuovo film di Antonio Capuano, un grande maestro. Con lui ho lavorato al mio primo film e ho iniziato la carriera sul set. Precedentemente avevo debuttato a teatro con Carpentieri per uno spettacolo, “Tram2”, che portammo al festival di Sant'Arcangelo, un’esperienza fantastica che mi aprì le porte di un mondo».

Il suo rapporto con Napoli? 
«Dopo il liceo al Pansini e l'Accademia andai a Roma perché il cinema si fa lì. Ma i miei figli sono cresciuti qui, il filo non si è mai interrotto... In fondo qui siamo al centro della grande bellezza». 

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