Uscire nello stesso giorno del nuovo album di Taylor «donnadeirecord» Swift può sembrare una paraculata o una dichiarazione di resa incondizionata. O anche una «materia oscura», una «Dark matter», come si intitola il nuovo album, il dodicesimo in studio, dei Pearl Jam, arrivato in negozi e piattaforme insieme allo sbancaclassifiche «The tortuted poets department».
Ma non è materia oscura il suono del disco, e del gruppo, revisionato con quel tocco da restauratore post-moderno che Andrew Watt aveva già applicato ad «Hackney diamonds» dei Rolling Stones.
Disco da band, certo, non a caso firmato dai cinque della Marmellata di Perle, più Watt ed il membro aggiunto Josh Klinghoffer. Disco retrò, come può esserlo un reperto archeologico rock ritrovato al tempo dello streaming, dei like, del suono digitale. Disco che poggia il suo fascino, come sempre, sul vocione di Eddie Vedder, che però non ha molte storie da raccontare, molte urgenze da urlare. Così Watt rimodella i Pearl Jam non tanto su quello che sono stati dagli anni Novanta ad oggi, soprattutto negli anni Novanta, ma su quello che dovrebbero/potrebbero essere oggi. Resistenti, in trincea, onesti revivalisti di sè stessi. La chitarra di Mike McCready si imbizzarrisce a dovere sostenuta dalla rete ritmica di Stone Gossard, il basso di Jeff Ament è tellurico come di dovere, la batteria di Matt Cameron è forse tenuta un po’ bassa nel missaggio, come anche l’ugola del leader, ma è il prezzo da pagare per un disco che sembri davvero «di una band», non di un rocker solista.
Eppure è proprio la direzione del Vedder solista che spinge il gruppo verso terre meno stranote, come l’acustica «Setting sun». Poi ci sono pezzi come «Upper hand» che parte come una sarchiaponata degli U2 e si sviluppa meno prevedibilmente in una lisergica reverie pinkfloydiana. O come «Waiting for Stevie», scritta aspettando in studio mister Wonder per un contributo destinato al disco di Eddie, ma ispirata piuttosto dai Soundgarden, se non dai Rem.
«Vi consiglio di ascoltarlo ad alto volume, molto alto», raccomanda il cantante. «Sedetevi, chiudete gli occhi per il primo ascolto, assorbite i suoni e le parole e interpretateli individualmente», rilancia Ament. «È ancora divertente suonare, come se fossimo bambini», assicura Gossard.
«Dark matter» funziona meglio del suo predecessore «Gigaton» (2020), ma nessuno cerchi paragoni con «Ten», «Vs.», «Vitalogy». Anche perché quello che i Pearl Jam vogliono ricordarci ai tempi di Taylor Swift è che il rock, un tempo colonna sonora (contro)culturale di un secolo intero (o almeno della sua seconda metà) è oggi diventato «materia oscura», retromodernista, vintage, da difendere come un animale a rischio di estinzione. E ad un animale anziano e sul punto di non lasciare eredi non si chiede di essere bello, impudico, ribelle e impossibile come nella sua leggendaria giovinezza, ma di rockare e rollare almeno ancora un’ultima volta. Così «Setting sun» parla di tramonto, ma promette ancora un’alba e persino «un nuovo sole». E «Running» tocca il cuore con parole così semplici da sembrare finalmente sincere, se non addirittura necessarie: «Puoi essere amato da tutti/ e non provare amore». Perché è la vita, in fondo, ad essere una «Dark matter», uno dei brani migliori di un disco con qualche brano di troppo, tra springsteenismi ed echi di Who.