Calcutta al Palapartenope e il karaoke del pubblico: costretto a urlare per farsi sentire

In scena il più nerd degli show con lo showman-nonshowman

Calcutta al Palapartenope
Calcutta al Palapartenope
Federico Vacalebredi Federico Vacalebre
Domenica 24 Dicembre 2023, 10:00 - Ultimo agg. 16:18
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Edoardo D'Erme, in arte Calcutta, non è certo un animale da palcoscenico, forse nemmeno vorrebbe esserlo, e, probabilmente, non ne ha nemmeno bisogno. Il pubblico canta a memoria, e a squarciagola tutti i pezzi in scaletta in un Palapartenope gremitissimo, ultima data (rimandata per indisposizione) del tour» sold out dopo - anzi prima - il successo dell'ultimo album, «Relax».

Ecco, allora, andare in scena il più nerd degli show, con lo showman-nonshowman che non si sbraccia per salutare il suo pubblico, non lo blandisce con forme di captatio benevolentiae, non si lancia in preamboli o postfazioni dei pezzi, limitandosi a dire cose tipo «grazie, il prossimo pezzo si intitola...», ma non fa nemmeno in tempo a pronunciare le prime sillabe che già la platea canta con lui.

Spingendolo spesso a urlare per farsi sentire, per risultare presente in un risultato, se non artistico di sicuro comunicativo, in cui gli spettatori sono protagonisti assoluti: cantano, ballano, sorridono, danno un senso alle filosofia escapista calcuttiana. La band fa il suo dovere, i visual pure, con il gioco delle parole e dei disegni a completare la narrazione delle situazioni sentimentali in cui sguazzano tutti, sopra e sotto il palco.

Si comincia con «Due minuti» («E ho scritto un Vangelo che parla di te/ ma ormai è troppo tardi/ e ho paura di dirtelo»), per continuare con «Cosa mi manchi a fare» («Pesaro è una donna intelligente/ forse è vero ti eri fatta trasparente/ ma non ci cascherai mai»), «Controtempo» («Che finalmente siamo soli e ancora non balliamo/ e mano per la mano mi dicevi: Ma se poi invecchiamo?»), «Orgasmo» («Mi hai chiesto un orgasmo profondo/ forse più profondo del mondo»). Il sound tiene insieme Battisti e Carboni, disco-funk e ballate, anni Settanta e Ottanta, synth e chitarre, mentre i testi tracciano solchi nel mare di un personale che non ha alcuna voglia di farsi politico («Guerra persa/ non ero mai finito a letto con una di destra», azzarda «Controtempo»). Nei nuovi pezzi lo stile diaristico è meno calcato che in passato, la narrazione cerca meno immediatamente l'adesione generazionale. Occhiali, cappello in testa, sgualcito, normale, indie pop forse, di sicuro «Mainstream» per dirla col suo secondo album, Calcutta canta «per», e «di», e «con», una (fetta di) generazione che non vuole stupire nessuno, tantomeno se stessa, che non vuole apparire diversa da quello che è. Che sorride felice nell'ora e mezza di «Relax» che si è concessa per applaudire il proprio beniamino. 

 

Al quarto disco il cantautore potrebbe anche permettersi un'esibizione più lunga, ma non se la sente ancora, sa che il troppo stroppia, che fuori divampa il consumismo natalizio, che sotto il palco ci sono ragazzi e ragazze che magari non sanno ancora come tornare a casa. E questa potrebbe già essere la trama di una prossima canzone, se solo gliela lasciassero cantare, se solo non dovesse urlare per farsi sentire, soprattutto quando arrivano «Paracetamolo», «Pesto» e «Tutti falliti». 

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