Capuano si dà alla commedia con Biagio Izzo: «Tamarro sì, ma italiano»

Capuano si dà alla commedia con Biagio Izzo: «Tamarro sì, ma italiano»
di Titta Fiore
Sabato 13 Ottobre 2018, 10:31 - Ultimo agg. 17 Ottobre, 22:51
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«L'italiano è come la vita in bella copia, come se stai sempre vestito elegante». Parola di Achille Tarallo, autista di autobus a Napoli con il sogno, nemmeno tanto segreto, di essere Fred Bongusto. Perché Achille canta, e traduce in italiano i versi delle canzoni napoletane classiche. Matrimoni, battesimi, comunioni, tutto fa brodo. Ha un socio, Café, un repertorio, il Tamarro italiano, e un improbabile impresario, Pennabic. Tutto il resto, colpi di scena, battute e risate, nel nuovo film di Antonio Capuano: «Achille Tarallo», appunto. La prima commedia dell'autore di storie toste come «Pianese Nunzio», «Vito e gli altri» e «Luna Rossa», prodotta da Luciano Stella e Maria Carolina Terzi, in uscita il 25 ottobre. Cast scoppiettante, con Biagio Izzo, Tony Tammaro e Ascanio Celestini, suoni e colori all'ennesima potenza. Il regista, classe 1940, è un fiume in piena di entusiasmo e di progetti.
 

Una famiglia vociante, un quartiere popolare, un protagonista azzimato e questa fissa dell'italiano: com'è nata la miscela, Capuano?
«Per gioco, per divertimento. Achille è convinto che il napoletano sia la palla al piede della città. Se parlassimo come i fiorentini o i bergamaschi, dice, Napoli sarebbe un fiore. Il dialetto ha rovinato Napoli e le sue canzoni. Quindi, non lo parla più. A casa non lo sopportano, tutti lo prendono in giro, ma lui non cambia idea».

Lei è d'accordo?
«Io penso che pochi conoscono il napoletano, al cinema e in televisione si usa un dialetto da cartolina. Achille si ribella alla cartolina».

«Achille Tarallo» è la sua prima commedia dopo un'onorata carriera in tutt'altro genere.
«Ma le commedie le ho sempre lette, da Plauto a Woody Allen, il più grande dei nostri tempi. E poi noi napoletani siamo figli di Eduardo. Al montaggio mi sono accorto che certe scene di famiglia hanno un sapore eduardiano... c'è poco da fare, ce l'abbiamo nel Dna. Senza dimenticare i debiti nei confronti del principe, Totò. Per lui ho una venerazione, e per fortuna non sono il solo».

Che cosa le piace di Totò?
«Le impennate surreali, la farsa indiavolata. Nel mio film parlano tutti insieme, un casino, ma nella vita vera succede così, è roba nostra».

Prevede sottotitoli?
«No, mi sono ribellato. Non c'è bisogno di spiegare il film. Ricomincio da tre lo vidi a Trieste, la gente rideva lo stesso. Ero seduto accanto a due signore, chiesi se avessero capito tutte le battute. Naturalmente no, ma Troisi è un grande artista. Eppure Massimo non diceva una parola in lingua. Purtroppo Achille si è fissato con l'italiano...».

Come si è trovato a maneggiare i toni della commedia?
«Benissimo, anche se dai miei film non traspare sono un tipo molto allegro. Lo spunto del film? Vita vera, me l'hanno raccontato. Sono andato a un funerale e il primogenito delle defunta non c'era. Silenzi imbarazzati: alla fine ho saputo che era scappato con la badante della madre. Io mi sbellicavo, dentro. E così anche Achille è sensibile al fascino della donna esotica: ha una moglie chiatta che la notte russa, la bravissima Monica Assante di Tatisso, lui sogna di cambiare vita, vuole essere un divo».

Intanto guida gli autobus. Nel suo film i trasporti funzionano?
«Si vedono le fermate piene di gente che brontola, ma non più di questo. I bus sono belli, colorati. Tutto il film è colorato, sullo schermo Napoli è una città smaltata, ridente, bella. Ho esaltato l'esistente, sono un tipo esagerato».
 
 

Oggi Napoli è di gran moda, tutti vogliono raccontarla.
«E sono liberi di farlo, ci mancherebbe. Se il dialetto non è stentato, gli ambienti non sembrano artificiali, mi va bene. Per me il cinema è una cosa troppo seria, quando mi siedo in sala divento molto, molto esigente. Un accento sbagliato mi distrae dal film. Ma quando una storia mi piace, mi arricreo, applaudo da solo».

L'ultimo film che le è piaciuto?
«Non saprei, procedo per accumulo: film, libri, tutto entra in un sacco senza fondo. Ecco, Dogman, per esempio, era bello».

Come deve essere un film per piacerle?
«Sono un uomo del Novecento, per me il corpo del cinema conta. Ma c'è spazio per tutto, basta evitare malafede e conformismo. Napoli da cartolina si vende bene, questo mi secca assai. Vorrei girare un film sulla gente perbene di Scampia, volevo fare un documentario sui ragazzi che lavorano, si danno da fare e sono tanti. Ma loro al cinema non hanno successo».

Non resta che la commedia, allora?
«Ma no, ho pronte tre o quattro sceneggiature del Capuano dolente. Una s'intitola Il buco in testa, è la storia della figlia di un poliziotto ucciso dalle Br. Una storia vera, agghiacciante e bellissima».

Paolo Sorrentino si è sempre detto un suo allievo. Lo incontra spesso?
«Ogni tanto ci sentiamo, ci mandiamo innamoratissimi messaggi. Gli dico di venire a girare un altro film a Napoli, è sempre molto legato alla sua città».

Che cosa pensa dei film prodotti da Netflix e Amazon per lo streaming? Favorevole o contrario?
«Parliamo di un'altra storia, un'altra chimica. Ne vedi di bellissimi, ma manca la prova dello schermo. Quello è il cinema, per me».

Come vede il futuro della settima arte?
«Complicato, e sempre più in mano agli affaristi. Avevo un progetto su Totò bambino e un produttore interessato. La storia era bella, gli incassi del mio film precedente un po' meno, non se ne fece niente».
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