Napoli, il labirinto di carta che custodisce i segreti di un principe esoterista

Nell'Archivio Storico del Banco di Napoli i documenti firmati dall'uomo-ombra del Sansevero

L'Archivio del Banco di Napoli
L'Archivio del Banco di Napoli
Domenica 14 Gennaio 2024, 10:25
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«Allora era vero, era così che doveva andare: il mio Maestro avrebbe unito per sempre il destino di quel giovane e gracile artista al suo. Allora era vero quello che, da umile servitore, mi ero permesso di sussurrargli un giorno all'orecchio: principe, facciamo nostra l'opera di quel magnifico scalpellista e vedrete, diventeremo immortali!» (Gennaro Tibet)

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C'è un luogo, a Napoli, che custodisce da oltre duecento anni i segreti di Raimondo di Sangro, settimo principe di Sansevero e gran maestro della massoneria napoletana. È l'Archivio Storico del Banco di Napoli ed è un luogo dal tempo sospeso, una sorta di cittadella incantata popolata di ombre. Fantasmi di vite passate prendono forma davanti ai nostri occhi, tra antichi libri e colonne di carta che, come stalattiti, pendono dal soffitto. In questo luogo magico - il museo dell'archivio storico del Banco di Napoli, chiamato anche il Cartastorie, probabilmente la più imponente raccolta archivistica di documentazione bancaria esistente al mondo - centinaia di documenti sottratti all'oblio consentono da anni, agli storici, di ricostruire la leggenda di Raimondo di Sangro, principe massone, letterato, tipografo, alchimista e scienziato, una delle figure più straordinarie e misteriose della Napoli del 700.

L'Archivio, che ha sede in via Tribunali, a poca distanza da Castel Capuano, deve la sua istituzione a un decreto di Ferdinando I di Borbone, del 29 novembre del 1819. La maggior parte dei documenti riguardanti il principe di Sansevero e conservati in queste stanze porta la firma di Gennaro Tibet, principale collaboratore di don Raimondo e responsabile del patrimonio dei Sansevero. Dobbiamo a un archivista tenace, Edoardo Nappi - storico responsabile dell'archivio storico del Banco di Napoli e autore di numerose pubblicazioni tra cui «Dai numeri la verità», un'autentica miniera di informazioni sui contratti firmati da Sansevero - se la figura del principe, e quella del suo domestico-tuttofare, sono uscite dal cono d'ombra della leggenda. Grazie alle scritture contabili degli antichi banchi pubblici napoletani si può tracciare la vera storia dei di Sangro di Sansevero attraverso due anni di avvenimenti pubblici e privati, così come registrati nelle causali di pagamento che hanno fatto seguito all'insediamento della famiglia a Napoli intorno alla metà del Cinquecento.

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Abbiamo immaginato che a guidarci in questo viaggio nel tempo - tra capolavori e leggende - fosse proprio la voce narrante di Gennaro Tibet. Sarà lui a portarci per mano in piazza San Domenico Maggiore, dove sorge il palazzo di famiglia dei principi di Sansevero, un tempo direttamente collegato (attraverso un passaggio coperto) alla Cappella Sansevero, scrigno di capolavori come il Cristo velato di Giuseppe Sanmartino, conosciuto in tutto il mondo per il velo marmoreo che si adagia sul Cristo morto.

Lui, immortale, si era illuso forse di diventarlo davvero, ma la barbarie dei tempi non gli rendeva giustizia: perché erano ancora tempi superstiziosi e cupi quelli in cui viveva il mio Maestro, settimo principe di Sansevero, tra gli effluvi dolciastri di laboratori nei quali cercava di penetrare i segreti de lo creato e i capolavori senza tempo della cappella che aveva trasformato in un labirinto iniziatico. Lui, immortale, sperava di diventarlo davvero ed è per questo che posò lo sguardo, con cento anni di anticipo rispetto agli uomini del suo tempo, sulla scienza e sulla genetica, sulla meccanica e sulla medicina, sulla fisica e sulla geometria, mentre la Chiesa lo considerava un elemento da Santo Uffizio, e molti si segnavano quando lo incrociavano nel cammino, e solo la monarchia borbonica ne apprezzava l'ingegno.

Napoli, anno del Signore 1754, il pomeriggio del 13 febbraio. Non vi erano esalazioni di laboratori alchemici ai piani nobili di Palazzo di Sangro dei principi di Sansevero.

Al civico 9 di piazza San Domenico tre uomini discutevano d'affari: uno di quegli uomini ero io, Gennaro Tibet, il servitore di don Raimondo. L'altro era il mio Maestro, che dopo aver costituito la loggia Rosa d'Ordine Magno (dall'anagramma del suo nome) aveva scalato tutta la gerarchia della Libera Muratoria fino a divenire il Gran Maestro di tutte le logge napoletane. Molti lo consideravano pazzo, perché correva voce che avesse preparato nel suo laboratorio da stregone una mistura sacrilega in tutto e per tutto simile al sangue di San Gennaro. Quel giorno don Raimondo, che pazzo non era, sfogliava il volume che campeggiava sul tavolo: era una preziosa traduzione dei Voyages de Cyrus di Michel Ramsay, un classico della letteratura massonica.

Eravamo seduti attorno a un grande tavolo, davanti a noi vi erano alcuni testi alchemici di cui pochissimi erano a conoscenza. Dalla piazza i suoni arrivavano tenui, ovattati; a poca distanza il dio Nilo osservava i minuscoli traffici che si svolgevano all'ombra della sua faccia barbuta. Mai occasione fu più solenne; attendevo quel momento da tempo e con trepidazione. Quel giorno c'era da perfezionare l'acquisto di una grande opera d'arte: la statua di un Cristo disteso sul letto di morte. Raimondo di Sangro, il committente dell'opera, stava per mettere le mani su un pezzo unico al mondo. Con noi, attorno al grande tavolo di casa Sansevero, c'era l'artista che aveva realizzato, in appena novanta giorni, quello spettacolo di devozione e superbia: il poco più che trentenne Giuseppe Sanmartino. Un tipo di poche parole, schivo, macilento, che per scolpire il suo Cristo di pietra si era avvalso del bozzetto del grande maestro veneto Antonio Corradini. Ma poi aveva deciso di seguire la sua ispirazione, di percorrere altre strade. A conti fatti, era stata la migliore decisione della sua vita: perché lo avrebbe reso immortale.

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A tarda sera consegnai l'assegno al pallido e taciturno Sanmartino. L'artista lesse il documento controfirmato da Sansevero: «A Giuseppe Sanmartino ducati 500 per la statua scolpita in marmo di nostro signore Gesù Cristo morto, ricoperto da una sindone di velo trasparente dello stesso marmo, da detto Sanmartino lavorata di tutta soddisfazione». Il giovane scultore approvò: l'accordo era concluso. Il mio Maestro lo abbracciò; suggellarono l'accordo con una stretta di mano. «Di tutta soddisfazione...». Il più soddisfatto di tutti, quel giorno, era proprio don Raimondo: il vero capolavoro lo aveva fatto lui. È vero, aveva pagato una fortuna per aggiudicarsi il progetto, ben cinquecento ducati, nessun tagliapietra, prima di allora, gli aveva chiesto tanto; ma era sicuro che ne sarebbe valsa la pena. Perché quel Cristo disteso sul letto di morte non era, il Maestro lo capì subito, come tutti gli altri: era, semplicemente, una delle opere marmoree più straordinarie al mondo. Il lavoro era terminato un anno prima, nel 1753, e Raimondo ne era rimasto estasiato. «Semplicemente perfetto», mi aveva confidato. Ricordo ancora le parole esatte: «Quell'opera è fatta con tale perizia che ingannerà gli occhi de' più accurati osservatori». La statua del Redentore era avvolta in un sudario di marmo, che aderiva tanto bene alle forme del volto e del corpo del Cristo da mettere in evidenza le ferite del martirio: le mani e i piedi straziati dai chiodi, la ferita al costato. Carne e sudario erano una sola cosa.

(1/ continua)

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