L'intronizzazione di Naruhito, nuovo imperatore del Giappone dopo l'abdicazione del padre Akihito: nasce l'era Reiwa

L'intronizzazione di Naruhito, nuovo imperatore del Giappone dopo l'abdicazione del padre Akihito: nasce l'era Reiwa
di Donatella Trotta
Mercoledì 1 Maggio 2019, 08:30 - Ultimo agg. 11:33
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La svolta (lungamente annunciata, con la volontà espressa quasi tre anni fa da Sua Altezza Imperiale Akihito di rinunciare al trono del Crisantemo) è arrivata. Il Giappone entra in una nuova era. Si chiamerà Reiwa, ossia «armonia (Wa) nell’ordine» (Rei): ideogrammi oculatamente mutuati dal Manyoshu, la più antica collezione nipponica di poesie waka. E dalla mezzanotte del 30 aprile 2019, ultimo giorno della trentennale era imperiale Heisei («pace realizzata», che si aprì l’8 gennaio 1989, dopo la morte del Tenno Showa, Hirohito, padre di Akihito) ha così inizio proprio dal primo maggio di quest’anno: quando, dopo la solenne abdicazione dell’ottantacinquenne Akihito al suo ruolo di imperatore – la prima negli ultimi due secoli, dopo quella del Tenno Kokaku nel 1817 - sarà il figlio e principe ereditario Naruhito, 59 anni, a succedergli. Ereditando i tre sacri tesori, emblemi e insegne della dinastia imperiale ereditaria più antica (dal 660 a. C.) e longeva al mondo: la leggendaria spada Kusanagi, paradigma della virtù del valore, custodita nel tempio di Atsuta a Nagoya; la gemma di giada Yasakani no Magatama, che rappresenta la virtù della benevolenza, conservata nel Palazzo imperiale di Tokyo; e lo specchio sacro Yata no Kagami, simbolo di saggezza custodito nel santuario shintoista di Ise, non a caso visitato nei giorni scorsi dall’attuale imperatore emerito per il complesso cerimoniale dei riti legati alla sua abdicazione che configura non pochi significativi scenari.

Un evento eclatante, per il Giappone, questa abdicazione, celebrata con profonda emozione collettiva forse paragonabile soltanto (pur nell’ovvia diversità: ma si passi il paragone azzardato, per capire il senso) all’impatto dirompente che sei anni fa ebbe, per la cristianità, il ritiro di Ratzinger: il solo Papa emerito della contemporaneità (ma non l’unico, nella Storia) a passare in vita il testimone del Soglio di Pietro al suo successore Francesco, pontefice simbolo dell’unità dei credenti. E quella giapponese è allora una svolta epocale che vale la pena di capire, per varie ragioni: non soltanto simboliche, spirituali e antropologiche, ma anche geopolitiche. E sociali. «Il gesto di Akihito, inedito per la Costituzione tardo ottocentesca su modello prussiano che traghettò l’impero del Sol Levante nella modernità, ma non nuovo nella millenaria storia nipponica, segna una significativa transizione del Giappone nella postmodernità, ma anche un preciso ripensamento dell’identità del paese nel complesso equilibrio mondiale», sottolinea Franco Mazzei, Professore Emerito dell’Orientale, docente alla Luiss e insigne orientalista specializzato in relazioni internazionali. «E ha una parola chiave – continua lo studioso - a connotarlo. Una formula tipicamente nipponica, pronunciata dall’imperatore emerito ormai stanco ma fino all’ultimo responsabile nel suo ruolo di figura simbolo della coesione della cultura nazionale: isshokenmei, ossia ho fatto di tutto, e a tutti i costi, per fare del mio meglio. Una locuzione sottile, che adombra l’incredibile capacità della civiltà nipponica di evolversi, di accettare le sfide dei tempi superandole con la virtù della resilienza, di una flessibilità in grado di adeguarsi al cambiamento della Storia malgrado i vincoli delle tradizioni. E in quella frase è racchiusa la specificità giapponese».

«Oggi concludo i miei doveri di imperatore», la frase scandita lentamente da Akihito nella sobria solennità della Sala del Pino all’interno del Palazzo Imperiale di Tokyo, accanto ai membri della famiglia reale e di fronte a circa 300 esponenti delle istituzioni: «Da quando sono saluto al trono trent’anni fa, ho esercitato i miei doveri di imperatore con un profondo senso di fiducia e rispetto per il popolo, e mi considero molto fortunato di essere stato in grado di farlo con il sostegno della gente che mi ha visto come il simbolo dell’unità», ha aggiunto, quasi a sottolineare lo stile di affettuosa popolarità e impensabile (e inedita) prossimità alle persone e che il suo regno ha instaurato, completando – pur nel ruolo simbolico di sommo sacerdote dello shintoismo, dunque guida spirituale senza alcun potere politico di uno Stato-nazione, ma non capo di Stato - il processo di desacralizzazione di una figura ritenuta sino alla fine della seconda guerra mondiale inaccessibile perché di origine divina, diretta discendente della dea del sole Amaterasu.  
Basti pensare, tra i gesti innovativi del trentennale regno Heisei, alla storica visita di Akihito in Cina nell’ottobre del 1992: la prima di un imperatore giapponese nel corso delle vicende plurimillenarie dei due paesi, e agli ulteriori segnali che a inizio di quest’anno (dalla celebrazione del Capodanno cinese con l’illuminazione a festa della Torre di Tokyo, per fare un solo esempio) sembrano ravvisare una svolta, nelle relazioni (a lungo problematiche) tra l’ex Regno di Mezzo e l’Impero del Sol Levante, in direzione di quella che i politologi definiscono Kikoku: la  tendenza a “tornare” (ki) nel “paese” (koku), ovvero in Asia anziché sotto l’influenza occidentale di stampo statunitense. Questione non da poco, nello scacchiere mondiale dove il Giappone, terza potenza planetaria, può fare la differenza negli equilibri della postmodernità liquida. Oppure, si pensi alle non formali scuse pubbliche, anch’esse inedite, proferite da Akihito nel 2005 alla Corea e ai suoi caduti sull’isola di Saipan in una cruenta battaglia della guerra del Pacifico; per non parlare del disastro di Fukushima, nel 2011, quando dopo lo tsunami la foto dell’imperatore accovacciato con la moglie tra gli sfollati fece il giro del mondo.

E non c’è allora da stupirsi nemmeno che nello storico giorno del suo ritiro Akihito citi poi proprio l’amata consorte (e ora imperatrice emerita) Michiko, prima borghese della millenaria storia nipponica ad aver varcato, con le nozze celebrate nel 1959, la soglia del Palazzo Imperiale: scelta controcorrente che rappresenta una delle miti e silenziose “rivoluzioni” del rigido procotollo imperiale portate avanti da Akihito. «Insieme all’imperatrice – ha detto Akihito – auguro sinceramente che la nuova era Reiwa sia stabile e fruttuosa, e prego, con tutto il mio cuore, per la pace e la felicità del nostro Paese e dei popoli del mondo». Poche e scarne parole, ma dense di rinvii evocativi: proprio come i versi waka e haiku  della grande tradizione letteraria giapponese. Una tradizione basata - come il lungo e complicato cerimoniale del passaggio di consegne imperiali dimostra, costellato di una settantina di eventi che culmineranno in autunno - su miti fondanti ancora vitali nella cultura contemporanea. Miti che sono peraltro «veicolo concreto di una antica coesione sociale, accanto alla visione che Akihito ha avuto di un lungimirante realismo geopolitico che a noi manca», aggiunge Mazzei. Riti che l’impero dei segni, avanguardia del futuro con tutte le contraddizioni che ciò comporta, celebrerà fino in fondo nelle varie tappe che il cerimoniale prevede: tra i quali la Festa del Grande Ringraziamento (Daijosai), a metà novembre, con lo scopo puramente simbolico di rinsaldare il legame tra l’imperatore e la dea Amaterasu dalla quale la tradizione vuole discenda la famiglia imperiale.
 
Da oggi, con l’intronizzazione del nuovo imperatore toccherà a Naruhito continuare a traghettare il suo Paese verso la postmodernità: primogenito di Akihito e Michiko, nato a palazzo Togu a Tokyo il 23 febbraio 1960 e noto per la sua inclinazione per opere caritatevoli sin da quando non era ancora principe ereditario, è laureato in storia all’università Gakushuin nel 1982, poi in letteratura inglese al Merton College dell’università di Oxford.

Sportivo, cosmopolita e amante della musica (suona la viola), ha girato tutta l’Europa incontrando molti membri di altre famiglie reali, dai quali ha tratto ispirazione. Tanto da seguire le orme paterne: sposando per amore una giovane donna borghese, Masako Owada, brillante figlia di Hisahi Owada, ex viceministro per gli Affari esteri ed ex ambasciatore del Giappone presso le Nazioni Unite, attualmente giudice presso la Corte internazionale di Giustizia. Laureata in Scienze Politiche all’università di Tokyo e avviata ad una promettente carriera diplomatica, la neo-imperatrice consorte conobbe Naruhito nel novembre 1986 a un tè organizzato dall’Infanta Elena di Spagna. Galeotto fu l’incontro: il Palazzo Imperiale ha annunciato il loro fidanzamento il 19 gennaio 1993, le nozze si sono celebrate il successivo 9 giugno nel tempio imperiale scintoista di Tokyo, alla presenza di 2500 invitati. E nel 2001, è nata la loro figlia, Aiko.

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