Cucina borbonica a Natale
Non è nostalgia, ma gusto

Cucina borbonica a Natale Non è nostalgia, ma gusto
di Luciano Pignataro
Sabato 17 Dicembre 2016, 22:00 - Ultimo agg. 22:58
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Diciamo subito che non siamo nostalgici o revisionisti, anche perché in gastronomia non ci sono dubbi che sia il Sud ad aver conquistato il Nord con la pasta, l'olio d'oliva, il consumo delle verdure, la pizza. Però cultori di un certo passato di cui si sta perdendo traccia lo siamo, ed è per questo che il consueto speciale del Mattino dedicato al Natale è stato interamente dedicato alla cucina borbonica. E' un ritorno a un passato in cui Napoli era all'avanguardia per tante cose, prima fra tutte nel gusto del buon vivere, dalla tavola al vestire.

In effetti le ricette dell'800 sono complesse, un po' fuori moda perché eccessivamente grasse e cremose, magari troppo inclini all'uso della carne.
Queste ricette sopravvivono nelle tracce scritte del Corrado e del Cavalcanti, ma anche nei quaderni delle case aristocratiche napoletane che ogni tanto qualcuno riesce a scovare per strapparle alle intimità dei ricordi familiari per darle in pasto al pubblico degli appassionati.

Si tratta di uno stile direttamente importato dalla Francia grazie all'avvento dei monzù, i cuochi di corte che introdussero le tecniche d'Oltralpe alla materia prima meridionale. Altro che rivoluzione della Nouvelle cuisine degli anni 70, è proprio nel Regno delle Due Sicilie che la cultura parigina si impone e dilaga nelle forme, nelle sostanze e persino nei termini. La progressione classica dal salato al dolce, dal freddo al caldo, insomma lo spartito al quale noi abbiamo aggiunto «il primo», ossia la portata con la pasta.

La cosa davvero curiosa di questa tradizione gastronomica è il fatto che a Napoli e nel Sud ha vinto la cucina povera su quella ricca nell'alimentazione quotidiana. Ha vinto non solo per dimensioni qualitative, ma soprattutto sul piano culturale e nutrizionale. In effetti i primi segnali li aveva dati proprio Ferdinando II, ghiotto di cibi popolari e poco raffinati.

Ma è proprio nell'evoluzione della vita moderna che vince la tradizione dei poveri, che in sostanza non è altro che un insieme di piatti in cui c'è il sogno della carne, a cominciare dalla minestra maritata, al ragù, alla genovese, alle melanzane imbottite. Ovunque le proteine animali fanno semplicemente capolino, e non certo per virtù etica o nutrizionista, ma semplicimente perché non era cibo alla portata di tutti. Basta pensare che ancora negli anni 60, dunque non cento anni fa, si diceva «a casa mia non manca mai la carne» per sottolineare il benessere economico raggiunto dalla propria famiglia.

Ebbene, oggi è esattamente il contrario: l'alimentazione consapevole è concentrata su quello che mangiavano i poveri, dunque vegetali, fibre, oesci e raramente si lascia andare sulla carne rossa mentre spesso il junk food è proprio costituito da cibi di dubbia provenienza e scarsa tracciabilità che entrano nell'alimentazione di ogni giorno. Insomma, un vero e proprio rovesciamento delle parti e dei ruoli.
Che noi, però, possiamo allegramente ristabilire nelle loro funzioni originali tornando a quelle ricette sontuose dell'aristocrazia a cui oggi quasi nessun ristorante si richiama in alcuna parte del menu.
Dal che il detto, ancora molto diffuso e comune all'ombra del Vesuvio: «Il miglior ristorante di Napoli? A casa mia!»
 
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