Fabio Donato 1969-2022 alla galleria FrameArsArtes di Napoli: «Una luce che si chiama desiderio»

Dopo quasi dieci anni il grande fotografo napoletano torna a esporre

Fabio Donato 1969-2022
Fabio Donato 1969-2022
di Giovanni Chianelli
Venerdì 1 Dicembre 2023, 13:00
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«Tempo fa, costretto al buio, il mio desiderio di luce è aumentato» scrive Fabio Donato alla fine del catalogo che illustra il suo ultimo lavoro. Dopo quasi dieci anni il grande fotografo napoletano torna a esporre e lo fa in grande con «Fabio Donato 1969-2022», alla galleria FrameArsArtes in corso Vittorio Emanuele 525 dal 6 al 20 dicembre (vernissage alle 19).

Una mostra speciale, tanto che vale per due: in un ambiente della galleria ci sono le immagini inedite, «Desiderio di luce» appunto: «Basta dire che è un lavoro condotto sulla soglia».

In un altro spazio si trova, disposta a formare un puzzle, la selezione di 150 scatti in formato piccolo che raccontano oltre mezzo secolo di lavoro, una vita vissuta a testimoniare le trasformazioni del proprio tempo.

Da quando, proprio nel 1969, immortalò le performance del Living Theatre nella sua Napoli, al teatro Mediterraneo, inaugurando un percorso che lo avrebbe portato a fotografare Eduardo De Filippo con una celebre foto presente in mostra e a collaborare con Toni Servillo, Mario Martone, Marcel Marceau, Roberto Benigni, Andy Warhol, Joseph Beuys, Hermann Nitsch, Ernesto Tatafiore, Sting, Pino Daniele, Lucio Dalla, Chet Baker. E a girare il mondo: un anno in India, esposizioni dalla Cina al Brasile, con suoi scatti oggi esposti nei musei di diverse nazioni. Il centro di gravità permanente, però, resta la sua città: «Ho scelto di non andarmene per la luce e per le contraddizioni, materie costituive del mio lavoro».

La mostra è a cura di Paola Pozzi, con testi critici di Olga Scotto di Vettimo, il catalogo di «Desiderio di luce» esce per Paparo editori che inaugura così la collana «Frammenti di un archivio».

Donato, come mai ha deciso di tornare a esporre le sue foto?
«Dopo l'antologica a Capodimonte di quasi dieci anni fa avevo una grande voglia di mostrare al pubblico l'ultima ricerca, anche per misurarmi di nuovo su materiali inediti».

Parliamo di «Desiderio di luce»?
«Preferirei fosse una sorpresa, non vorrei sia frainteso, appiattito, banalizzato, come un lavoro su un tema molto conosciuto. La mia ricerca è da sempre aperta, ambigua, sfumata, le immagini quasi sempre senza titolo: darglielo le costringerebbe in un solo ambito, preferisco suscitare dubbi e incertezze operando su concetti astratti. Dico solo che ci sono finestre socchiuse da cui escono spiragli di luce».

E cosa potrebbero rappresentare?
«Riducendo all'osso, la soglia, concetto cruciale nella mia fotografia. È un mio pallino, ci ho pure scritto poesie: è quella cosa che ci divide e lo farà per sempre, ciò che sta tra il prima e il dopo, tra il vero e il falso, è la metafora di una condizione complicata da vivere perché non si capisce che tempo abbia. E la fotografia segue questo smarrimento: quando scatti ciò che sembrava futuro diventa passato, e appena hai scattato hai imprigionato un passato che sa di futuro».

E nella sezione dedicata alla sua carriera? Che cosa vedrà il pubblico?
«Ho provato a fare una selezione non cronologica, non da ragioniere, ma che potesse camminare sui binari degli amori e degli accostamenti. Ci sarà Eduardo, quella foto che comparve anche su "Il Mattino" quando morì, e che è diventata iconica. Ci sarà un pezzetto di India, il posto dove mi fermai oltre un anno a ritrarre la precarietà umana, e poi l'arte, il teatro, l'architettura, i grandi personaggi e tra questi i ritratti di Warhol e Beuys, e ancora altri frammenti, magari più di margine, eppure per me altrettanto rilevanti».

E anche tanta Napoli.
«Ho avuto tante occasioni per abbandonarla, tra i viaggi e le permanenze lontano. Ma ho scelto di restare qui. Da giovane mi stava stretta, col tempo ho capito che non potevo fare a meno della sua luce e del suo caos. Qualcuno dirà che la confusione, l'assenza di regole, i rumori incessanti e il folklore possono essere sintomo di inciviltà, ma questo è il punto: Napoli è contraddizione e la mia ricerca si muove proprio su questo. I contrasti irrisolti sono uno stimolo potentissimo».

Le piace anche la città gentrificata dei turisti, pizzeria a cielo aperto?
«Dico una cosa che molti intellettuali contesteranno: sì. È meglio una friggitoria o le sparatorie in pieno centro? La gente ha la memoria corta, fino a vent'anni fa il centro storico era un Far West, faceva paura. Oggi è invaso di gente di tutto il mondo e magari quel ragazzo che frigge ha posato la pistola. Il turismo porta lavoro ed elementi di novità, io sono contento. Solo una cosa non mi torna: come mai il mondo si è accorto così tardi di Napoli?». 

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