Franco Arminio, Canti della gratitudine: per una geografia dell'inquietudine

A pochi mesi dall'altra raccolta Sacro minore, Arminio si cimenta con un argomento impegnativo posto nella parte alta della scaffalatura culturale

Franco Arminio
Franco Arminio
di Generoso Picone
Giovedì 4 Gennaio 2024, 08:00 - Ultimo agg. 5 Gennaio, 08:01
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In un passo di Canti della gratitudine, il suo nuovo libro, Franco Arminio rivela di essersi trovato un giorno a riflettere sulla particolare trasformazione che in questi anni progressivamente lo ha riguardato. Cioè, essere diventato, da militante dell'inquietudine, un consolatore militante: dall'autore che attraverso un lavoro di cesello sulla parola, alla maniera degli artigiani della pietra nella sua Bisaccia, ne ricavava l'autenticità dei significati rilevandone insieme lo spessore del mistero, allo scrittore orientato verso una pagina dove non ci sono «versi di sapienza in gara con l'eterno» compilata con l'obiettivo di «radunare attimi di batticuore».

«Canto la ferita dei non amati, la pena di chi non vuole essere vecchio.

Vorrei essere il vicino di lacrime, il custode delle passioni a cui è scaduta la licenza. Io scrivo per voi, per chi non trova pace. Nessun dolore avrà mai la mia indifferenza», esplicita qui in Per chi scrivo, un po' la sua dichiarazione d'intenti oggi che consegna così gli elementi per comprendere il particolare fenomeno non soltanto letterario denominato «arminismo». Per risalire alle motivazioni in base alle quali Arminio si sia affermato come il poeta di maggiore richiamo sulla scena nazionale, non esclusivamente in ragione di quanto pubblica - che gli fatto guadagnare la stima di Roberto Saviano e le citazioni di Marco Mengoni, attestazioni di importanti critici come Alberto Asor Rosa e omaggi dal palco di Sanremo, di recente pure una udienza con Papa Bergoglio -, ma anche per la ormai collaudata capacità di coinvolgere un pubblico ampio e fedele tra letture, reading sentimentali, performance teatrali, jam session liriche, dialoghi pubblici ad alta temperatura emotiva che svolge in ogni luogo. Possono essere considerate celebrazioni di consolazione militante, momenti sacerdotali di una sorta di liturgia laica. Però non si può non prendere tutto ciò seriamente in considerazione.

Se tanto è, Canti della gratitudine costituisce una buona occasione per provare a venirne a capo. A pochi mesi dall'altra raccolta Sacro minore, Arminio si cimenta con un argomento impegnativo posto nella parte alta della scaffalatura culturale. Interroga il tema della gratitudine, il sentimento per dire blindato nell'aura di L'ombra e la grazia di Simone Weil e ne trae la propria definizione: «La gratitudine è una postura da costruire, è un piegare i ferri del nostro io». Pure correndo il rischio dell'egocentrismo, dell'eccessiva esposizione del sé che non gli è decisamente estranea risultandone un limite, ne esce con l'invito a non considerare «le cose come contrapposte: anche un egocentrico può essere gentile, anche una persona umile è giusto che abbia un momento in cui rivendicare la sua grazia. L'umiltà non deve sfociare nella mestizia». Soprattutto sostiene perché nei tempi in cui viviamo la gratitudine deve diventare una questione politica, intrecciando vicende intime e pubbliche, fornendo con la parola poetica - «fai buon uso delle parole, la parola è sacra, è un pugno o una stella» il contributo ad «aprire gli occhi su una verità limpida e rivoluzionaria: essere semplicemente grati per il fatto di essere vivi». 

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«La gratitudine è una conquista, non è un abito che si indossa. La gratitudine a volte è furiosa, impaziente, non parla sempre a bassa voce». In tale considerazione c'è l'esperienza di chi ha narrato il vuoto dei paesi spopolati delle aree interne dell'Irpinia e della Basilicata, ne ha visto le crepe e identificato le solitudini, giovandosi del lascito ricevuto dalla costellazione familiare e dai maestri letterari: Scotellaro, Gatto, Fortini e Celati. E c'è anche la lezione maturata prima nell'impresa paesologica e poi nei Canti della gratitudine - mettendosi all'ascolto delle voci della fragilità e offrendo risposte nei termini di una cura praticabile. Nei cinque capitoli che scandiscono il testo, segue la traccia di ferite profonde il male, la sventura, l'ansia, il dolore, la morte e delinea un percorso nella geografia dell'inquietudine che conduce alla convivenza possibile in nome di un nuovo umanesimo fatto di tenerezza, innocenza, coraggio, attenzione, purezza, salvezza. Che diventa urgente gesto di ribellione alla Scotellaro: «Come la gratitudine, anche la poesia comincia quando finiscono i discorsi, quando il pericolo è più grande». E aver disegnato un simile orizzonte nel deserto delle passioni tristi appare la risposta più attendibile per capire il senso della poesia di Arminio. 

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