Mimmo Jodice, novant’anni di tempo interiore

Il grande maestro: «Rifarei tutte le fotografie che ho fatto. Lascio un’eredità, ma oggi vorrei ricominciare daccapo». Le sue immagini hanno una dimensione eterna e metafisica tra luci e ombre, mistero e inquietudine, bianco e nero

Mimmo Jodice
Mimmo Jodice
di Giovanni Fiorentino
Giovedì 28 Marzo 2024, 06:44 - Ultimo agg. 08:35
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«Rifarei tutte le foto che ho fatto. Io lascio un’eredità, è il caso di dire. Un’eredità, perché lascio questa camera oscura, tutti i materiali sensibili, tutte le pellicole… Vorrei ricominciare daccapo». Mimmo Jodice il 29 marzo compie novant’anni e proietta un’eredità dilatata e immensa, che è l’identità tra il suo sguardo, Napoli e la fotografia – l’arte, per lui – contemporanea. Che è l’orizzonte forzatamente curvo, lo strappo e tutte le bruciature estetiche che rimandano sempre e in qualche modo a Napoli, alla sua città-mondo. Che è l’impronta originale, l’essere nato alla Sanità, vivere e, con Angela, aprire uno studio a piazza dei Martiri, mentre esplodevano le energie di Lucio Amelio, Peppe Morra, Marcello e Lia Rumma, Pasquale e Lucia Trisorio e lì accogliere il mondo, quello dell’arte contemporanea, quello di Warhol e Beuys, di Rauschenberg e Johns, quello che mescola Napoli al mondo. «Come un racconto, come una favola» ha spiegato più volte la compagna, e la modella, di una vita, senza la quale si fatica a immaginare l’artista.

«La vita intorno a noi diventa sempre più accelerata e frammentata in una miriade di immagini e segnali esasperati che riducono la nostra capacità di vedere» spiegava Jodice allla Federico II, era la lectio magistralis del 16 novembre 2006.

E continuava: «Quanti di noi riescono a usare uno sguardo lento per capire, ricordare, emozionarsi? Probabilmente, lungo questo tempo, alcune mie fotografie importanti non le ho realizzate con la macchina fotografica ma solo con gli occhi, imprimendole non sulla pellicola ma nella mia mente». È folgorante l’esordio degli occhi, con un’esagerata capacità di vedere, che racconta e mostra le sperimentazioni tecniche e linguistiche interagendo con l’arte contemporanea degli anni Settanta e la ricerca socio antropologica che si sviluppa a Napoli e in tutto il Meridione. Gli strappi, i paesaggi interrotti, le manipolazioni nell’amatissima camera oscura, dove danza con le idee prima di tutto. Poi con le mani, la carta sensibile e la luce dell’ingranditore: la fotografia produce e riflette su se stessa, in un dialogo ideale, potente e a distanza con le verifiche e la ricerca di Ugo Mulas, con Duchamp in definitiva, sempre tessendo un corpo a corpo con la sua città, lanciato in avanti, decidendo di abitarla e rappresentarla elaborando foto-graficamente il ritratto di una realtà sofferente. Jodice ha captato i sintomi di un malessere profondo che si traduce incidendo in bianco e nero il lavoro dei bambini, diretto, frontale e coraggioso, o fermando la scena dove insiste il colera o il terremoto, esprimendo la tensione mobile della cultura popolare in una rielaborazione dell’universo barocco. Allo stesso modo l’occhio entra nelle fabbriche, gli operai dell’Italsider con la maschera sulla faccia, nelle prigioni o negli ospedali psichiatrici, nascondendo il volto del malato dietro il fazzoletto, per costruire un taglio visivo profondo e dilatato che si immobilizza nella storia dell’immagine e, oggi, della nostra memoria. 


Nel 1980 arriva Vedute di Napoli, un momento di svolta: nelle sue immagini sparisce l’uomo e con lui il dato temporale per consegnare il visivo a una dimensione eterna e metafisica. Dalle Vedute la fotografia di Jodice esplora il rapporto intimo con la pittura metafisica e surrealista, racconta l’elaborazione di un paesaggio che si fa rarefatto e visionario. Le impronte della rovina, dei riverberi marini e mediterranei si fanno echi prepotenti di una poetica che travalica spazio e tempo per fermarsi nell’immaginario, diventano il silenzio di un bianco e nero che si fa mistero e inquietudine, ombra e luce. Il viaggio si fa silenzio architettonico di un bianco e nero ai bordi dell’attesa, mistero e inquietudine, ombra e luci, forma ed eternità riconosciuti. Il museo di Capodimonte lavora per creare la «Casa della Fotografia Mimmo Jodice». Ora una sua antologica si sposta a Firenze, a Villa Bardini (fino al 14 luglio), per il progetto «La Grande Fotografia Italiana» delle Gallerie d’Italia – Torino, museo affidato a Roberto Koch. La mostra qui si arricchisce di una nuova sezione dedicata alle immagini delle opere fiorentine di Michelangelo Buonarroti, che escono dagli archivi di Jodice dopo 30 anni. Lo sguardo di Bruto, la Madonna del Tondo Pitti, i volti eterni del «Giorno e della Notte», i particolari dei «Prigioni», della «Pietà di Palestrina» e della «Pietà Bandini». Le fotografie, esposte per una volta sola a Palazzo Serra di Cassano nel 1990, ritornano alla luce. Auguri maestro, buon compleanno. 

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