«Ucciso per il rifiuto ai Casalesi»,
​via al processo dopo 27 anni

«Ucciso per il rifiuto ai Casalesi», via al processo dopo 27 anni
di Marilù Musto
Giovedì 4 Ottobre 2018, 10:19 - Ultimo agg. 10:35
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«Il clan dei Casalesi voleva gestire la cava di Vincenzo Feola a San Nicola La Strada per smaltire rifiuti speciali, provenienti chissà da dove». Questa la verità secondo Salvatore Belforte, ex boss di Marcianise, ex collaboratore di giustizia, ex tutto, ascoltato in udienza ieri, in Tribunale, sulla morte dell'imprenditore del calcestruzzo ucciso per aver negato di metter mano al portafogli su ordine dei Casalesi. Niente tangenti.

E Vincenzo Feola fu colpito a morte davanti alla sua azienda il 21 ottobre del 1991. Per svelare il movente del «cold case» i magistrati della Dda hanno impiegato anni, poi sono arrivati i pentiti. E, infine, il processo. Solo che Salvatore Belforte, allo stato, pentito non lo è affatto perché ha intascato la revoca del programma di protezione concesso dal Ministero dell'Interno. Ma la sua deposizione davanti ai giudici della Corte di Assise del tribunale di Santa Maria Capua Vetere - presindete Giovanna Napoletano - è valsa almeno a scoprire cosa ci fosse dietro all'omicidio: un business che s'intreccia con il cambio di pelle della camorra, che smette di occuparsi di calcestruzzo e inizia a fiutare l'affare dello smaltimento dei rifiuti.
 
È questo lo snodo storico che mette il clan dei Casalesi sulla strada giusta per sfondare nel campo che nel corso degli anni frutterà milioni di lire e poi di euro, fino ad arrivare al periodo delle emergenze rifiuti del 2004 e del 2005, anni in cui le discariche che si aprivano e si chiudevano erano solo quelle della camorra.

Alla rivelazione dell'ex pentito, tutti in aula sono rimasti colpiti. Salvatore Belforte, fratello del boss Domenico, però, non ha approfondito il discorso, non era forse la sede perché nel processo si sta cercando di ricostruire le fasi che portarono alla sentenza di morte di Feola, imprenditore che, stando alla ricostruzione, già pagava «il pizzo» al gruppo egemone a Marcianise - secondo i pentiti - e non poteva sostenere l'ulteriore «imposta» del clan dei Casalesi. Ma una domanda su chi comandasse negli anni Novanta a Caserta e a San Nicola La Strada, è comunque uscita dalla bocca del pm. E l'ex collaboratore di giustizia ha spiegato: «C'era una sorta di pax mafiosa fra noi e i Casalesi, perché su Caserta e dintorni all'epoca comandava Michele Iovine, poi ammazzato, solo che i Casalesi erano ben attenti a non rompere le uova nel paniere a noi». In realtà, al clan dei Casalesi interessava la cava di San Nicola perchè attraverso la Cedic, il consorzio del calcestruzzo, i Casalesi si assicuravano il monopolio assoluto nel settore del cemento. «Non è stato proprio così», ha poi ribattuto il pentito Michele Misso: «A Caserta comandava Michele Iovine e basta». Sullo sfondo, la sorte toccata a Feola. In aula, fra i banchi del tribunale di Santa Maria Capua Vetere, ad ascoltare le parole di Belforte, c'era la figlia dell'imprenditore.

Lei, rappresentata dal legale Claudio Pascariello, ha dovuto attendere oltre venti anni per sapere la verità sulla fine del padre. In primo grado, in abbreviato, sono già stati condannati Francesco Bidognetti a 30 anni di carcere, Ernesto De Angelis a 14 anni e Cipriano d'Alessandro a 10 anni. In corte di Assise a Santa Maria Capua Vetere - presidente Giovanna Napoletano - sono invece imputati Giuseppe Misso e Andrea Cusano. Quest'ultimo, difeso dal legale Gabriele Gallo, gode della misura restrittiva dell'obbligo di dimora a Como. La prossima udienza è prevista il 15 ottobre.
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