Napoli, l'addio a Carlo Giuffré: «Le famiglie del teatro non esistono più»

Napoli, l'addio a Carlo Giuffré: «Le famiglie del teatro non esistono più»
di Stefano Prestisimone
Venerdì 2 Novembre 2018, 09:33
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Uno era Geppetto, l'altro il Grillo Parlante. Nel «Pinocchio» di Benigni, anno 2002, Carlo Giuffrè e Peppe Barra erano tornati assieme in un cast a distanza di oltre vent'anni, ovvero dal 1981, quando avevano recitato entrambi in uno dei film più significativi di Liliana Cavani, «La pelle», tratto dal libro di Curzio Malaparte che raccontava della Napoli post bellica del 1943/44, entrando nelle case e nelle pene dei vinti narrando una città decadente, allo stremo.

Peppe Barra, qual è stato il primo pensiero quando ha saputo della scomparsa di Carlo Giuffrè?
«La notizia mi è arrivata in tempo reale e mi sono tornati alla mente i pochi ma significativi momenti in cui le nostre carriere si sono incrociate. Non ho mai avuto modo di stabilire un vero rapporto di amicizia con lui perché anche sul set di Pinocchio non c'erano scene in comune. Le mie prevedevano molto spesso degli effetti speciali e per girarle, con Benigni, andammo in Inghilterra. Lo conosceva meglio mia madre, Concetta, che me ne aveva sempre parlato bene. Io e Carlo ci siamo incrociati soprattutto durante le numerose conferenze stampa prima dell'uscita del Pinocchio, scambiando opinioni e idee. Di sicuro lo stimavo molto come attore e lo stimo come se fosse ancora qui. Quelli del suo spessore hanno dato grande contributo alla dimensione artistica di questa città».

Del suo Geppetto che ricordo ha?
«Aveva un compito ingrato e quasi impossibile derivante dal confronto con quello straordinario di Nino Manfredi nel lavoro di Comencini. Ma fu molto bravo e riuscì a rendere bene il personaggio del vecchio falegname dall'animo gentile».

Un flashback su «La pelle»?
«Un film molto particolare, crudo, intenso. Parliamo di 37 anni fa, io ero giovane, avevo meno di 40 anni. Eravamo in un cast molto importante, con Marcello Mastroianni, Burt Lancaster, Claudia Cardinale. Il mio ruolo era quello di un sarto mentre Giuffrè interpretò Eduardo Mazzullo, un piccolo camorrista locale».

Le grandi famiglie del teatro napoletano perdono un altro caposaldo come i Giuffrè. Dopo Aldo, scomparso nel 2010, ora Carlo.
«I Giuffrè rappresentano un tassello molto significativo nel mosaico della storia teatrale di questa città, hanno avuto entrambi una carriera lunga e molto prolifica, con il teatro come base ma con molti momenti significativi anche al cinema e in tv. Si, in effetti, ora siamo sempre più poveri. E questo pensiero è ancora più forte dopo aver visitato la magnifica mostra dedicata ai De Filippo».

Ci dica di più.
«Mi ci sono immerso e ho avuto la percezione esatta della grandezza di Eduardo. Rivederlo in tanti momenti della sua carriera, in tante sfaccettature, pezzi di teatro davvero monumentali, è stata una emozione speciale. Ma questo vale anche per Titina e Peppino. Una famiglia d'arte che ha lasciato ai posteri una eredità gigantesca».
Lei è uno degli ultimi esponenti di queste grandi famiglie? «Io provo a tenere sempre alto il nome dei Barra, di mia madre, mettendo in pratica tutto ciò che lei mi ha insegnato e mi ha trasferito con amore. Come la Cantata dei Pastori che continuo a portare avanti e a rappresentare come fosse un vessillo. Ho scelto, e sono uno dei pochissimi, di restare a Napoli, di continuare a lavorare nella mia città, con tutte le difficoltà che ciò comporta. Ma non mi sono arreso e non mi arrendo, è una questione di identità e di coerenza. La mostra dei De Filippo così curata, elegante, importante, è la prova che Napoli, quando vuole, non è inferiore a nessuno».
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