Anteprima Sanremo, l'amore al tempo del rancore

Anteprima Sanremo, l'amore al tempo del rancore
di Federico Vacalebre
Sabato 19 Gennaio 2019, 10:30 - Ultimo agg. 12:03
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Inviato a Milano

Incassata la solidarietà di Fiorello («Ci si indigni per chi ruba, non per i compensi dei conduttori di Sanremo»), Baglioni presenta i suoi «gioielli», le 24 canzoni del suo secondo Festival: «Abbiamo cercato di rappresentare la varietà dell'attuale panorama canoro italiano esaltandone la bellezza, la varietà, la sincerità, la vitalità, a volte anche la bizzarria. Ma attenzione, il pop è musica di fanteria, poco nobile ma democratica, e, soprattutto di questi tempi, sempre in movimento, con il destino di essere contemporanea, di negarsi a musei e conservatori».

Il Sanremo 2019 cambia davvero le carte in tavola anche se, al primo ascolto in una sala Rai milanese di corso Sempione, non sempre il cast rinnovato - e finalmente rappresentativo delle anime del suono made in Italy - corrisponde a un canzoniere rinnovato. Perché se ha avuto coraggio Clauditel a presentare al pubblico di Raiuno Ghemon e Shade, Achille Lauro (il trapper, non il comandante) e Livio Cori, gli Zen Circus e Motta, non sempre è stato ricompensato con egual coraggio dai 24 in gara dal 5 al 9 febbraio. I giovanotti del contingente rap&indie osano poco e gran parte dei big, comprese le prime donne Pravo e Bertè, compresi gli ex vincitori Renga e Cristicchi, pure. «Sono canzoni del dubbio, più che della certezza, dove si parla di migranti come di altri problemi dei nostri tempi. E di assenza: del padre, dell'amore, di figure di riferimento, di pensatori controcorrente», argomenta il dirottatore artistico che cerca di non finire stritolato nella polemica contro Salvini e la direttrice di Raiuno De Santis.
 
E sia, lasciamo parlare le canzoni: tutte insieme, a un primo ascolto, sono un muro cupo, rappresentano un Paese spaventato, in cui gli adulti hanno poco da dire e i ragazzi l'impressione che dire non serva a niente. Ma qualcuno ci prova, come i pisani Zen Circus, band che azzarda un rock distopico, un incubo post-dylaniano che, per quanto poco nazionalpopolare, sembra la cosa migliore della kermesse con «L'amore è una dittatura»: se davvero parla di amore è amore al tempo del colera, il nostro tempo, il nostro colera, più o meno social. Seguiti a ruota dalla coppia verace e intergenerazionale composta da Nino D'Angelo e Livio Cori: il primo dà una mano al lancio del secondo, che a sua volta lascia contaminare di verace melodia la sua trap in «Un'altra luce», brano che alterna senza soluzione di continuità dialetto e italiano («Te pozzo da' cient'uocchie che t'appicciano a vita, ma sarà sempe cchiù scuro si nun ce crire»). Piace il pop bipolare di Arisa, tra Abba e Matia Bazar (quelli originali, con Antonella Ruggiero), tra Raffaella Carrà e Giuni Russo. Piace il Giovane promosso Big Mahmood, lo stesso non può dirsi del suo collega Einar: l'egiziano di Milano, con i beat implacabili di Charlie Charles per garanzia, rappa una storia di ordinaria dis/integrazione, scandita su uno spietato ritmo hip hop e il ritornello «soldi, soldi, soldi», mentre qualcuno vorrebbe far nascere un caso sul suo uso dell'autotune. Piace Ghemon, che si mette nei panni di una ragazza per darle voce da soul brother. Piace ancor di più «Argento vivo» di Daniele Silvestri, con le incursioni del rapper Rancore a dare ancora più ferocia alla storia di un ragazzo di 16 anni che sente la sua vita come una galera, scuola o casa che sia.

Il resto non brilla, nonostante la voce di Renga, la classe di Patty Pravo (a cui Briga serve ben poco), la grinta di Loredana Bertè (c'è Curreri tra gli autori), la citazione dei Negrita («I ragazzi stanno bene» guarda a «The kids are allright» degli Who come a un modello inarrivabile), la classe di Paola Turci, il talkin' di Cristicchi, l'autoplagio di Nek (c'è Paolo Antonacci, figlio di Biagio e Marianna Morandi, tra gli autori), la fotoromanza (c'è la Nannini tra gli autori) pop del Volo, il reggae dei Boomdabash (c'è Rocco Hunt tra gli autori, e lo vedremo anche sul palco nella serata delle autocover). Federica Carta con Shade e Anna Tatangelo passano inosservati, mentre Ultimo, il favorito della vigilia, punta su un pezzo troppo classico per le sue corde e Achille Lauro abbraccia il rock'n'roll citando Stones e Axl Rose, Hendrix e Presley, ma guardando soprattutto a re Vasco: «Voglio una vita così, voglio una fine così». Dal fronte indie pop Motta si chiede «Dov'è l'Italia», ma in passato ha fatto di meglio, e gli Ex Otago si accontentano di una ballata dell'amore che non strappa più i capelli. Enrico Nigiotti, infine, neosovraneggia, rimpiangendo il nonno, la campagna, la bellezza-semplicità perduta come il vernacolo livornese: «Si parla più l'inglese dei dialetti nostri».

E allora? «Raggiunta la pace dei sensi, ora vorrei anche la pace dei consensi», chiude Baglioni.

Perché Sanremo è Sanremo e, alla fine, i risultati dell'auditel conteranno più di ogni altra cosa.

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