Venditti, quarant’anni cantando sotto il segno dei pesci

Venditti, quarant’anni cantando sotto il segno dei pesci
di Andrea Spinelli
Martedì 25 Settembre 2018, 08:57
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«I maestri cantori di Norimberga» dura di più. Ma pure le tre ore e mezza abbondanti di spettacolo con cui Antonello Venditti è tornato l’altra sera all’Arena di Verona si portava dietro uno spirito wagneriano. Non fosse altro che per la pretesa di identificare nel pubblico il concetto di devozione in quello di resistenza. Una durata-kolossal da far impallidire perfino Sigfrido-Baglioni, che sotto la stessa luna la settimana scorsa aveva lambito le tre ore. Una luna storta (d’altronde se sfidi il destino intitolando il tuo ultimo singolo «Sfiga» devi poi essere pronto a pagarne le conseguenze) fatta di contrattempi, un «gobbo» che si blocca proprio mentre stai per collegarti con lo studio di Fabio Fazio per salutare in diretta Francesco Totti o un pianoforte che non entra in scena, e cambi di scaletta dovuti a quella logorrea fuori controllo, che alla fine, per chiudere lo show entro l’una del mattino, l’ha costretto a tagliare sei canzoni sulle 33 previste compresi classici come «Amici mai», «Dimmelo tu cos’è» o «Benvenuti in paradiso».  
Un vero peccato perché se l’ultima volta, in Arena, Venditti aveva venduto solo poche migliaia di biglietti - e c’era voluta tutta l’«arte» della sua agenzia per rendere il colpo d’occhio su quei gradoni millenari un po’ meno severo - domenica la cornice scaligera tracimava pubblico ed entusiasmo grazie all’opportunità di poter ascoltare dal vivo per la prima volta in quarant’anni «Sotto il segno dei pesci» in versione integrale. 
«Probabilmente è il mio disco più importante, quello in cui figuravano già tutti i temi che avrei poi sviluppato negli anni a seguire la politica, l’amore, le discriminazioni, la droga» ha poi spiegato Antonello (che poi all’anagrafe è Antonio) nei camerini. «Quello che ha dato il via alla mia svolta musicale». In replica il 21 e 22 dicembre al PalaLottomatica di Roma (si spera con tempi un po’ più fisiologici) prima di partire per un lungo tour a supporto della riedizione (con inediti, brani live e sorprendenti versioni in francese) dello storico album, lo spettacolo nell’emiciclo di Piazza Bra ha visto l’intervento di Ermal Meta e Francesco De Gregori. «Ermal lo conosco da poco, ma portiamo le stesse stigmate», ha assicurato lo chansonnier, suggestionato presumibilmente dalla giornata di festa liturgica di Padre Pio, mentre De Gregori era proprio il destinatario di uno dei brani più struggenti di «Sotto il segno dei pesci», quella «Francesco» in cui l’amico si augurava di poter rinverdire i tempi del «Theorius Campus» tornando a suonare assieme «senza rimpianti, senza paura, come due amici antichi». 
Desiderio appagato in Arena da versioni condivise di «Bomba o non bomba», «Sempre e per sempre» («canzone sua, ma è nata a casa mia»), «Attila e la stella» e, l’inevitabile, «Roma capoccia», con immagini sullo schermo di Ettore Petrolini, di Alberto Sordi, di Sabrina Ferilli. «La pace con De Gregori? In realtà, fra noi non è mai successo niente» ha spiegato Venditti. «Sono gli altri che avevano bisogno di contrapporci, come Bartali e Coppi, come i Beatles e i Rolling Stones». Diversa la versione di De Gregori: «Il nostro è sempre stato un rapporto “dispari” perché siamo molto diversi, come carattere, come voce, come modo di scrivere le canzoni» spiega il principe. «Però ogni tanto ci vediamo e cantiamo qualche cosa assieme. E sembra che ci riesca pure bene. Sia lui che Lucio Dalla sono amici con cui ci siamo presi e lasciati tante volte nel corso di questi 45 anni; sarebbe stupido negare che fra noi ci sono momenti d’incomprensione, di attrito, di rivalità, d’invidia, però Antonello rimane uno degli artisti italiani che stimo di più».
Anche perché ha scritto dischi come questo, che dura non solo per l’effetto nostalgia, che pure c’è, e per cui Antonello reclama persino doti profetiche: «Bomba o non bomba», dice lui, «oltre ad anticipare la stagione del terrore e delle bombe, è anche la fotografia di Matteo Renzi». Perché? Lui cita i suoi versi: «A Firenze dormimmo e un intellettuale, la faccia giusta e tutto quanto il resto, ci disse “No, compagni, amici, io disapprovo il passo, manca l’analisi e poi non c’ho l’elmetto”». Forse il rottamatore rottamato non c’entra, c’entra piuttosto l’inizio di una crisi, l’inizio di una stagione in cui politica e militanza venivano messe in secondo piano rispetto al «personale»: «Mi hanno sempre detto che sono un comunista. Per me il comunismo è portare le persone che stanno peggio a stare meglio. Per me non si chiama comunismo, si chiama logica. Oggi vedo solo “eserciti” che si contrappongono».
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