Ultimo a Sanremo 2023: «Al festival per chiudere un cerchio»

«In questi anni sono passato dalla cameretta agli stadi: la risposta del pubblico è stata molto forte»

Ultimo al festival di Sanremo
Ultimo al festival di Sanremo
di Federico Vacalebre
Sabato 21 Gennaio 2023, 10:00
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Il cerchio si chiude, o quasi. «Il mio primo singolo è del 2016», ricorda Niccolò Moriconi, 26 anni, nella sua casa a un tiro di schioppo da dov'è nato, San Basilio. La sua è una villa di quelle che non ti aspetteresti alla periferia di Roma, «perché i pregiudizi castrano qualsiasi ragionamento», riflette Ultimo, davanti al suo pianoforte, mentre si racconta tra l'andirivieni dei suoi cani (Toffee, in omaggio «al brano di Vasco che adoro», e Pisolo) e telefonate a cui deve rispondere («ciao mamma, sto facendo un'intervista, ti chiamo dopo»). «In questi anni sono passato dalla cameretta agli stadi: la risposta del pubblico è stata molto forte, e mi continua a sorprendere. Perché i sette anni di oggi, non sono quelli del passato: tutto si consuma in fretta», continua, presentando «Alba», la canzone del suo ritorno a Sanremo, ma anche il suo quinto album, in uscita il 17 febbraio, dopo la settimana di passione festivaliera. 

Partiamo da lì, Niccolò, dal cerchio da chiudere. Nel 2018 vincevi all'Ariston tra i Giovani con «Il ballo delle incertezze». L'anno successivo tornavi tra i big con «I tuoi particolari» e ti piazzavi secondo: eri stato largamente il più televotato, ma giurie speciali e noi giornalisti tu piazzarono secondo dietro il Mahmood di «Soldi». All'epoca non gradisti il pasticciaccio brutto. Ora con che spirito torni?
«Credo che la mia sia una scelta coraggiosa, di fronte alla quale molti mi hanno detto: Ma chi te lo fa fare? Non ti serve, non ne hai bisogno, riempi già gli stadi. Ma io non posso dire che siccome faccio gli stadi non vado a Sanremo. Allora sì, chiudiamo sto cerchio, ma non perché ho un conto aperto, o perché devo vincere ad ogni costo per vendicarmi di una vittoria scippata.

No, torno e chiudo il cerchio perché Alba si è scritta quasi da sola ed è una di quelle canzoni che merita il Festival e la sua platea. Mostra un altro me, come in una lettera spedita alla parte nascosta di ognuno di noi per spingerci a rialzarci, a provare e riprovare, a ricominciare, a superare quei limiti mentali che non ti lasciano maturare, evolvere, crescere».

«Amo l'alba perché spesso odio la vita mia», canti, e ancora, «amo l'alba perché è come una sana follia».
«Sì. È un pezzo al condizionale, che immagina come sarebbe la vita se per conoscerci non avessimo bisogno di parlare. Ecco, aspetta».

Ultimo si alza e si siede al pianoforte a coda, attacca la sua ballata pianistica che per i bookmaker è la favorita per la vittoria, davanti alla «Due vite» di Mengoni e, più distaccata, «Parole dette male» di Giorgia. Al secondo ascolto, nella sua nudità, se ne comprende più l'intima portata, il coinvolgente crescendo.

Quindi Sanremo, non la vittoria, è il mezzo, e «Alba» il fine.
«Proprio così. Per questo è la prima canzone del disco, per questo anche gli altri pezzi la riverberano, ne condividono le vibrazioni, diciamo che gli altri brani sono lo strappo sul vestito di Alba. L'album è nato come in un flusso di coscienza, su questi tasti bianchi e neri su cui spendo 26 ore al giorno. Ma comporre Alba è stata un'esperienza inedita anche per me. Avevo in mente una frase, Amo l'alba perché è come fosse solo mia, il resto mi è venuto a cercare una mattina d'estate alle Eolie, mi sono sentito un tramite».

L'alba è simbolo di ri-nascita. Dopo la pandemia, dopo la guerra?
«Non sono solito fare riferimenti alla cronaca, alla vita mia e di tutti, ma, certo, l'atmosfera che ci circonda l'ha influenzata».

Pace fatta, allora, anche con la stampa che questa volta nelle pagelle è stata generosa con te?
«Non sono uno che rimugina sul passato. Non sono pentito e nemmeno ne vado fiero. Ho sempre fatto quello che sentivo di fare. Ed ora ho capito che non posso piacere a tutti. A qualcuno la mia musica fa pena, c'è chi non regge le mie canzoni perché dice che sono troppo lente. Pazienza, basta che mi si riconosca almeno l'autenticità. Per le pagelle, poi, è normale, e anche giusto, che ognuno scriva quello che vuole. Ma io vado avanti per la mia strada, anzi...».

Si alza e torna al pianoforte, perché la strada del cantautore da 55 dischi di platino e 18 d'oro è fatta di nuove canzoni. E la seconda in scaletta è «Nuvole in testa», che accenna continuando il privatissimo miniconcerto casalingo.

Sembra uno sfogo.
«Lo è, l'ho scritto durante un trasloco e contiene una frase che sa di essere rivendicazione generazionale: Tu non sai che c'ho dentro».

Certo i tuoi coetanei vivono in un mondo a dir poco precario. Ma il tuo successo è eclatante, confermato dagli stadi quasi sold out anche per il tour estivo, 250.000 biglietti già venduti, dopo il trionfo dell'anno scorso che ti ha visto anche - unico finora nella storia - portare a casa un doppio sold out nello stadio napoletano.
«Sono orgoglioso di quello che ho fatto e ancor più di chi mi ascolta. Ma sono anche consapevole di tutto quello che c'è ancora da fare: scrivere la mia storia con entusiasmo e quella sana ingenuità che ti permette di buttarti in cose sconosciute».

Le altre canzoni del disco?
«Tengo molto ad Amare, che è un po' la gemella di La stella più fragile dell'universo. O a La pioggia di Londra, aspetta, te la faccio sentire», dice e si rimette al piano.

Perché Londra?
«È una città del mio cuore e mi appartiene l'immaginario del titolo. Un giorno ero nella capitale inglese, mi sono affacciato e... ho visto la canzone. Il disco è il frutto di un anno di viaggi e di emozioni, l'ho scritto tra qui, la Sicilia, Los Angeles, Londra. Sono fiero di aver scritto questi testi e queste musiche. Pian piano verranno fuori pezzi come Le solite paure. Ecco, questo è il ritornello, ascolta».

Basta un accenno per capire che è un altro dei cuori del lavoro: «Lo so bene, dovrei avere anch'io una vita, ma ho scelto di usar la mia per crearne una collettiva», canti.
«È vero, sento un senso di responsabilità nei confronti delle persone che mi scrivono quanto le mie canzoni li abbiano fatti stare meglio».

Cos'è quel titolo, «Joker»?
Ultimo ne suona un pezzo, confermando di aver ascoltato bene Antonello Venditti (che a sua volta aveva ascoltato Elton John), poi: «Sono rimasto incantato dal film di Todd Phillips con Joaquin Phoenix: il Joker mi è sembrato un ultimo che poteva farcela con un po' d'aiuto, ne ho preso le parti».

Suoni e testi superano il disco precedente, «Solo».
«C'è un cambiamento tangibile anche nel sound: è più etereo, per la necessità di provare cose nuove. Non è un concept album, ma ogni brano ha il suo posto».

Il tuo posto ora torna ad essere l'Ariston. Sei di nuovo il favorito della vigilia.
«Sì. E a furia di grattarmi, ho consumato i gioielli di famiglia. A me del Festival piace l'idea di mettermi in gioco, buttarmi nella mischia. Vorrei che questa partecipazione fosse un modo per far capire che ho un fuoco dentro che il successo non riesce a spegnere».

Sette anni sono tanti, dicevi prima. I giovanissimi, quelli come Lazza che ti ritroverai come rivale, ti fanno mai sentire già «vecchio»?
«Quando non sei più la novità viene fuori la verità: se sei autentico rimani, altrimenti sparisci».

Tu per sette anni sei rimasto, riempi gli stadi, sei favorito a Sanremo: ti senti arrivato?
«No, anzi ho sempre la sensazione che tutto possa finire da un momento all'altro, per questo lavoro sodo, sempre. Mi piacerebbe costruire una carriera solida, avere la continuità di un Tiziano Ferro, di un Cesare Cremonini». 

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