Roy Paci: «A Sanremo se Baglioni mi chiama»

Roy Paci
Roy Paci
di Federico Vacalebre
Giovedì 5 Ottobre 2017, 15:14
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Pensa positivo, il nuovo Roy Paci, «anche perché vengo fuori da un periodo davvero scuro, con malanni familiari più che assortiti», spiega lui, che come un esorcismo ha intitolato il suo nuovo album «Valelapena», scritto tutto attaccato, «perché così è più breve, si fa prima e vale ancora più la pena». Il disco, che il picciotto siciliano con la tromba ha appena presentato alle 18 alla Feltrinelli di piazza dei Martiri, celebra i primi vent’anni sonici con gli Aretuska.
 



Tempo di bilanci, Roy?
«No, l’uscita del cd in questo anniversario è solo un caso, l’anno scorso ho dovuto interrompere il lavoro, così eccoci qui adesso, a fare ancora musica insieme, con lo stesso spirito degli inizi, ma tanta esperienza in più».

Hai coinvolto diversi amici, da Daniele Silvestri, autore di «Tira» e «No stop», al rapper Deuce Eclipse, dall’irlandese Ivan Nicolas all’australiano Dub Fx. C’è anche Ernesto Vitolo alle tastiere, vecchia volpe del neapolitan power. Per non dire del produttore Dani Castelar.

«A Silvestri mi lega un’amicizia di antica data. Da lui ho imparato molto, soprattutto nella scrittura dei testi. Io avevo già suonato con lui, ora Daniele ha aiutato me, come in un baratto: vale la pena sperare in un mondo dello showbiz diverso, in cui si può essere amici».

Il disco è insieme allegro e profondo, frizzante e politico, persino più vario dei tuoi già variegati lavori precedenti. L’afrobeat si aggiunge alla più consueta deriva latina, le brass band indiane al manuchaoismo.
«Siamo davvero indipendenti, e da sempre, siamo davvero interessati a tutte le musiche, senza puzze al naso, nè purismi. Non ho mai amato la ghettizzazione delle categorie né l’ortodossia musicale. Per me vige la libertà sonora, non nel senso di ibrido, ma di una ricerca approfondita. Qui c’è tutta la mia “mezcla”, la miscela di suoni latini e africani che si è depositata dentro di me».

Parli di rivoluzione, concetto non proprio di moda, ma la vedi come una festa.
«È uno dei testi di Silvestri: siamo ancora qui a inseguire un altro mondo possibile, a dire, come tutto il disco, che la speranza è la prima delle armi necessarie, ma con la consapevolezza che non bisogna concepire la propria militanza come un qualcosa di punitivo».

Ci sono dediche nel disco, da Primo Brown a Peppino Impastato.
«”Ipocrita” guarda allo stile del compianto rapper dei Cor Veleno, mentre il brano che chiude il disco, “Augusta”, nel raccontare la mia storia di emigrante della musica (“ma dove minchia vai con quella tromba/ qui c’è da lavorare per poter campare” mi dicevano sempre), evoca come simboli della mia Sicilia, come immagini che ho sempre dentro di me, il pane, che ha il senso della dignità quotidiana per cui ringrazio i miei genitori, e l’uomo dei cento passi, per il senso della dignità superiore necessaria ad essere fedeli alle proprie idee».

Ti senti davvero un «Medicine man», un «curandero»?
«La musica cura, quando salgo sul palco mi sento come un terapeuta, anche se nei mesi scorsi avrei avuto piuttosto bisogno di qualcuno che curasse me».

Davvero sei pronto per l’esordio a Sanremo?
«Sì, se Claudio mi vuole: Baglioni è un musicista vero, abbiamo fatto delle cose insieme, quasi quasi ci provo, devo solo mettere a fuoco l’idea.
Sono sicuro che con lui al comando il Festival può fare un passo in più verso la vera musica».

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