Muti: la cultura
ci salverà dalla barbarie

Muti: la cultura ci salverà dalla barbarie
di Donatella Longobardi
Martedì 3 Luglio 2018, 09:14
4 Minuti di Lettura
«Sarà un Mozart come dev’essere, un Mozart ricco di sfumature, di colori, di nostalgie del Sud». Anche a Kiev Riccardo Muti parla di Napoli. E non solo perché Napoli è la città dove è nato e dove si è formato alla scuola di Vincenzo Vitale, ma perché il progetto Napoli in questo momento è al centro della sua sempre frenetica attività. 
Così, tra il concerto dell’altra sera nella capitale ucraina (replicato stasera a Ravenna dove lo registra Raiuno che lo manderà in onda il 16 luglio), gli impegni a Chicago con la sua grande orchestra americana e il prossimo «Macbeth» a Firenze in forma di concerto dove l’11 luglio si ricorderanno i cinquant’anni dalla sua prima volta al Maggio, il maestro anticipa le tracce del «Così fan tutte» che inaugurerà la prossima stagione del San Carlo, il 25 novembre, con la regia della figlia Chiara. Un evento attesissimo e rarissimo non solo per Napoli, dove Muti non presenta un’opera da 35 anni, ma anche perché è la prima opera in forma scenica da lui diretta in Italia dopo il «Falstaff» di Ravenna di tre anni fa.  
È così maestro? 
«Ho ceduto alle insistenze della sovrintendente Rosanna Purchia che da anni mi invitava a tornare: tutto si è concretizzato proprio mentre Chiara dirigeva la regia delle “Nozze di Figaro” al San Carlo. Logico a quel punto pensare ad un altro titolo della trilogia italiana di Mozart-Da Ponte e all’opera che Mozart ambientò alle pendici del Vesuvio». 
Lei parlava di un Mozart con la nostalgia dei colori del Sud?
«Sì, è così. E non è un’opera facile da mettere in scena, è senza trucchi». 
Per esempio? 
«Dico solo che non sarà un lavoro filologico come va tanto di moda, né con ambientazioni bizzarre come ci hanno abituati molti teatri e molti registi che inseriscono invenzioni extraterrestri; poi la musica è quello che è e i cantanti parlano una lingua di duecentocinquanta anni fa».
La regia di Chiara? 
«Non lo dico perché è mia figlia, ma ha fatto un lavoro superbo. Lei è cresciuta con Strehler, conosce l’opera a memoria, non si vedranno stranezze. La produzione sarà portata a Vienna e in Giappone. Oggi purtroppo in questo campo si assiste a scempi continui delle regie, ed è uno dei motivi per i quali faccio sempre meno opere».
In effetti spesso non si dice il titolo a fianco del nome del compositore ma lo si associa ad un regista. 
«La confusione è enorme. In nome del politically correct Otello diventa bianco, Rigoletto se la vede coi mafiosi e altre sciocchezze del genere che contrastano terribilmente con quanto scritto dai compositori e dai loro librettisti. Prendiamo Verdi, ad esempio». 
Sì, Verdi.
«Può sembrare strano ma a Kiev ho trovato una compagine corale che non fa rimpiangere l’Italia. Sono preparati, disciplinati, hanno una profonda civiltà musicale. E, in più, sono un po’ meridionali, gente schietta, vulcanica come noi napoletani. Musicalmente non sono soggetti alle turpi tradizioni che infestano i nostri teatri dove nessuno più conosce il vero accento verdiano, sono stati bravissimi sia nei pezzi sacri che nel “Va’ pensiero” che va cantato sottovoce, come un lamento. Non c’è zun-pa-pa». 
Eppure Verdi spesso è ritenuto popolare per questo. 
«Dire popolare non è volgarizzarlo. È popolare nel senso nobile del termine. La musica di Verdi ha radici nella scuola napoletana attraverso il suo maestro Lavigna, allievo di Paisiello. È una musica raffinata, che parte da un lato da Napoli e dall’altro da Schubert, per questo Mahler l’amava. Ed è un patrimonio da salvaguardare perché rappresenta la vera espressione della cultura italiana». 
E lei, Maestro, da anni si batte per questo. Ha riscontrato cambi di rotta? 
«Credo sia una battaglia vana, forse ci vogliono un paio di generazioni. Io guardo all’Italia soprattutto dall’estero, e lo faccio con occhio apprensivo. Vorrei che crescesse la qualità, invece anche i cosiddetti programmi culturali di radio e tv spesso fanno solo pettegolezzi. Basti ricordare che la Rai chiuse le sue orchestre migliori e con professori di altissimo profilo, di Roma e Napoli. Penso sempre più spesso che cultura sia una parola abusata e usata a sproposito tanto che ha perso di valore e significato». 
È la politica? 
«Io non faccio politica, anche nei miei viaggi dell’amicizia con il Ravenna Festival. Posso solo dire che fin da quando nel 1997 andammo a Sarajevo, ho constatato sempre più che se la politica si facesse con la cultura e la musica non ci sarebbero tante barriere. Io metto insieme musicisti di formazione, nazionalità, religioni, lingue diverse. Tutti si capiscono e collaborano in nome della musica e dell’armonia, non esiste messaggio più universale». 
Dopo Napoli, tornerà anche a dirigere alla Scala? 
«No. Ma al momento stiamo preparando una tournée con la Chicago Symphony per il 2020, le tappe italiane dovrebbero essere Milano, Firenze e Napoli».
© RIPRODUZIONE RISERVATA