Miller: «A Pompei con Avitabile
pensando a Pino Daniele»

Marcus Miller con Enzo Avitabile
Marcus Miller con Enzo Avitabile
di Federico Vacalebre
Domenica 27 Maggio 2018, 20:40
3 Minuti di Lettura
Con «Afrodeezia», il suo album del 2015, era tornato alle radici, «collaborando con artisti che venivano dalle terre sulla rotta della tratta degli schiavi, dall'Africa verso l'America». Con il nuovo «Laid black», pubblicato dalla Blue Note, è tornato al presente, all'urban sound più black e più contemporaneo, compresa la tanto demonizzata trap. È con i suoni di questi due dischi che Marcus Miller, dio del basso a suo agio nel jazz come nel soul-funky, aprirà il 21 luglio nell'anfiteatro di Pompei il suo tour italiano destinato a toccare anche Udine (il 24), Gardone Riviera (il 25) e Lucca (il 26).
Il concerto di Pompei la vedrà dividere il palco con Avitabile, mister Miller. Due set separati oppure?
«Enzo è un mio amico, un musicista straordinario, abbiamo già sperimentato che cosa vuol dire salire insieme in scena per una jam session, con lui puoi fare di tutto, da James Brown al jazz, ma immagino che ci daremo dentro sul fronte del ritmo».
La sua presenza era stata annunciata anche il 7 giugno allo stadio San Paolo per l'omaggio a Daniele.
«Non ci sarò, mi dispiace, avevo provato ad organizzare in modo da andare e tornare dagli States, ma il mio giro di concerti e di impegni non mi lascia la possibilità di esserci».
Anche con Pino l'amicizia era nata in scena, con gli strumenti in mano.
«No, a dir la verità, era iniziata senza strumenti. Abbiamo diviso una serata del Summer festival di Lucca, quello organizzato da D'Alessandro & Galli, che mi portano anche a Pompei. Credo fosse il 30 luglio 2013. Me ne avevano parlato come di un grande musicista, sapevo che aveva suonato con Wayne Shorter, con Chick Corea, con Pat Metheny e mi avevano fatto ascoltare alcune sue cose, venate di un suono particolarissimo. Poi ci hanno fissato una prova, una sola, ma... lui non aveva la chitarra e io non avevo il basso. Abbiamo scelto i pezzi da fare, lui mi ha cantichiatoo la melodia, io ho risposto li canticchiando la linea del basso: siamo scoppiati a ridere, ci siamo divertiti, e ancor più quando è arrivato il momento del concerto».
In due momenti diversi, avete fatto insieme materiali tuoi, ma anche «Je so pazzo», «Yes I know my way».
«Ho scoperto un artista straordinario, affamato di musica, ed una persona speciale, mi dispiace davvero averlo frequentato così poco, capisco perché tutta la musica italiana si ritrovi in uno stadio, il suo stadio, per ricordarlo».
Pino ti avrà chiesto sicuramente di Miles Davis, un suo mito personale, con cui hai lavorato a lungo in tour negli anni 80o, prima di produrre e arrangiare album storici come «Tutu» (1986) e «Amandla» (1989).
«Sì, mi chiese di Miles, voleva sapere che persona fosse, ma anche particolari su com'erano nati certi arrangiamenti, su che cosa chiedesse alla sezione ritmica, se era vero che facesse impazzire i batteristi. Ma era un appassionato, voleva sapere praticamente di tutti gli artisti con cui avevo suonato, che fossero jazz, soul, funky: Luther Vandross e Herbie Hancock, Eric Clapton e Bill Withers, Aretha Franklin e George Benson. Amava tutta la black music, ho capito perché lo chiamavano il Nero a Metà».
«Laid black» vanta ospiti come Trombone Shorty, i Take Six, Kirk Whalum, Jonathan Butler e Selah Sue. Si apre con «Trip trap» che si rivolge all'universo hip hop sussumendo le ritmiche della trap ma non certo l'autotune, e continua con «Que sera sera» riletta pensando alla versione funkizzata da Sly and the Family Stone.
«Ci sono melodie e groove, strumentali e canzoni, percussioni africane, hip hop, trap, soul, r'n'b, jazz e un bel po' di assoli del mio basso killer. Ce la siamo spassata con i miei musicisti, è roba per il corpo e per la mente, da ascoltare e da ballare. Nelle zone di New York da cui vengo io un tempo nascevano musicisti come me, al confine tra il jazz e il funky, oggi vengono fuori rapper, trapper, producer hip hop».
© RIPRODUZIONE RISERVATA