Linus: «Bocciato tre volte, radio e discoteca mi distraevano»

Linus: «Bocciato tre volte, radio e discoteca mi distraevano»
di Enzo Gentile
Sabato 14 Luglio 2018, 10:25 - Ultimo agg. 15 Luglio, 10:41
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Per dirla con Nanni Moretti, ecco uno splendido sessantenne, il più brillante e resistente della sua generazione: Pasquale Di Molfetta, in arte Linus, il dj lo fa da sempre, pur avendo cambiato postazione e tipo di pubblico. Partito dalle radio libere, ma libere veramente come cantava Eugenio Finardi, poi ha presidiato club e locali, per tornare alla radio, come direttore artistico e simbolo di Radio DeeJay di cui è il volto, l'anima, la guida: e se anche lo si può considerare un opinionista, un testimonial e un personaggio televisivo, la radio, il microfono con cui ogni mattina parla a circa a un milione di spettatori fedelissimi, sono il punto di riferimento imprescindibile.

Tutto nasce da lì: «Faccio parte di quella moltitudine di ragazzi che a metà degli anni Settanta ha scoperto un nuovo mondo. La musica che mi interessava e mi assorbiva anche prima, arrivava fino a quel momento con il contagocce, con alcune volonterose trasmissioni pionieristiche della Rai, Supersonic, Popoff, e poche altre che avevano popolato la mia adolescenza. Nel 1975, finalmente, si accende la luce e nascono le radio libere, che hanno il vantaggio di mandare quello che piace ai conduttori, di tutto e di più, per ventiquattro ore al giorno. Un sogno, in cui mi tuffo appena possibile, senza velleità di lavoro, ma con l'intenzione di dedicarmi con tutte le mie energie».

Anche lei parte con piccole emittenti spontanee.
«Quella era la regola, esistevano tante antenne sparse, quella da cui sono partito io si chiamava Radio Music, di Bollate. Il mio impegno era tale che la scuola divenne una specie di situazione parallela: lo dicono ancora oggi le mie pagelle, la quinta classe dell'istituto tecnico Ettore Conti di Milano l'ho ripetuta tre volte. Intanto lavoravo in fabbrica e andavo in onda tutte le sere sul tardi. La radio era uno svago, ma io lo prendevo molto seriamente, fino a capire che quello mi interessava fare, sopra ogni cosa. Il fatto è che di soldi per chi andava in onda non ce n'erano e dunque bisognava pensare a guadagnarli altrove. Le discoteche erano la strada giusta, dato che nel frattempo era esplosa la disco music con la richiesta garantita per ballare, ritrovarsi, divertirsi. La mia agenda così si fece sempre più fitta, raddoppiando l'esposizione tra la radio e le serate. Di quel periodo ricordo anche il costante mal di testa, a cause delle cuffie dalla tecnologia decisamente arretrata rispetto a oggi».

Che cosa ne è adesso della vostra generazione? Fino a quando resisterete in pole position?
«Siamo rimasti pochi e sono molti più quelli che incontro e vanno ormai solo con il pensiero a quei tempi eroici. Io con il doppio binario ho proseguiyo fino a una ventina di anni fa: intorno al 1997-98 ho capito di dover scegliere. Da una parte mi sentivo un pesce fuor d'acqua, a disagio con la nuova musica che cominciava a circolare nei locali, dove anche il pubblico si trasformava. Non mi divertivo più, non avevo nulla da spartire con i ragazzini che affollavano i club e ho detto basta, per concentrarmi su Radio DeeJay, dove poi ho colto risultati e soddisfazioni importanti».
 

L'emittente che dirige e da cui trasmette da sempre sta nelle prime posizioni dell'ascolto nazionale: quale è il vostro segreto?
«Fin da quando ho potuto decidere la linea ho pensato che ci si dovesse distinguere dalla colonna sonora delle radio in circolazione: noi non abbiamo le playlist che per comodità fanno assomigliare l'una all'altra. Da noi si procede secondo i gusti, la sensibilità, la cultura dei diversi conduttori: magari un certo tipo di pubblico potrebbe non gradire lo stacco tra me, Fabio Volo, Cattelan, ma io credo sia una ricchezza e la difenderò sempre. Anche per questa possibilità mi considero un ragazzo fortunato nelle varie stagioni della vita. Io mi diverto come il primo giorno e solo, di tanto in tanto, mi verrebbe voglia di tornare alla consolle di una discoteca, per vedere l'effetto che fa, avendo quelle duemila persone che ballano e si agitano grazie alla musica messa. Ma forse non ho più l'età».

Con la moltiplicazione dei dj forse bisogna smitizzare agli occhi dei ragazzi un mestiere che non è solo di gloria e denaro facile?
«Ormai con le apparecchiature in commercio tutti possono allenarsi a casa, ma poi in pubblico le cose cambiano: la tecnica conta, ma il feeling è altra cosa. Tutti si sentono in grado di provarci e forse è un bene. Il fenomeno è di massa e questo può rendere le discoteche un luogo anche pericoloso, che per la concentrazione di effervescenza giovanile restano complicate da gestire. Ma questo vale per tutte le componenti: per reggere all'urto della popolarità, delle pressioni, alla ricchezza improvvisa servono nervi molto saldi. Il caso di Avicii, celebrato dj morto suicida per l'impossibilità di rientrare nel mondo reale, deve farci riflettere molto».
 
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