Iva Zanicchi, appello a Baglioni: «Portami a Sanremo»

Iva Zanicchi, appello a Baglioni: «Portami a Sanremo»
di Andrea Spinelli
Mercoledì 31 Ottobre 2018, 10:45
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Prendi questa mano, Iva. «Una vita da zingara» è lo spettacolo sulla sua vita di cui la Zanicchi stessa fatica a definire natura e contenuti, quasi fosse impossibile raccontare le sue vite da cantante, conduttrice, europarlamentare berlusconiana, donna dalle mille sorprese (nel 1977 incise un album che si intitolava «Playboy» e posò nuda per la rivista omonima: «Mi avvicinavo ai 40 anni e il fisico teneva ancora, oggi non lo rifarei). Un recital che guarda al «teatro canzone» in cui trovano posto le storie, gli aneddoti, le notazioni a margine, le canzoni, di una vita. Debutto domani al Teatro degli Illuminati di Città di Castello, sette musicisti in scena, testo di Iva stessa con Mario Audino, rwgia di Paola Galassi (con la supervisione del marito Giampiero Solari), arrangiamenti di Danilo Minotti. «La narrazione che parte proprio dalla mia nascita», racconta la settantottenne cantante emiliana, che per non farsi mancare proprio nulla, oltre a «2 donne in fuga», altro spettacolo teatrale con Maria Laurito, e fare la giurata popolare a «Tu sí qué vales», si è assicurata un posto anche a «#CR4 - La repubblica delle donne», il nuovo show di Piero Chiambretti, al via alle 20.25 su Retequattro.

 
«Com'è «Una vita da zingara»?
«Un'autobiografia ironica. Sono nata in modo rocambolesco. Quando a mia madre vennero le doglie si trovava nella stalla ad accudire la mucca: mi ha deposto nella mangiatoia, accanto al bue. E sono cresciuta in tempo di guerra, anni di grande miseria ma segnati da una grande voglia di fare. Nelle due ore di spettacolo canto una ventina di canzoni. Sono partita dal blues da Cry to me, diventata Come ti vorrei, poi una di Tina Turner, poi una di Bacharach finche un discografico mi disse che se volevo andare a Sanremo dovevo cantare canzoni italiane».

È la stata la prima donna italiana a cantare al Madison Square Garden di New York.
«Beh, mi sono esibita pure alla Carnegie Hall, all'Opera House di Sydney... Mentre grandi artisti internazionali faticavano a cantare al Madison Square Garden, a cominciare da Iglesias, noi italiani eravamo di casa o quasi. Certo, a volte gli organizzatori si chiamavano Gambino o Genovese, ma tutti ci trattavano benissimo».

Boss amanti della musica! Anche in Russia ha avuto grande successo.
«A Mosca avevano già cantato Mirelle Mathieu ed Elton John, ma io sono stata la prima a cantare in tutta l'Urss dove qui da noi si diceva che mangiavano i bambini. Un alto funzionario del Pci si raccomandò: devi solo parlare di musica. Eseguii, ma a fine conferenza spiegai che non ero comunista e che la domenica sarei voluta andare a messa. Alla fine l'alto funzionario si alzò e mi sussurrò nell'orecchio: Sei una grandissima str..., domani riparto per l'Italia, tanto fra una settimana tu sei a casa. Aveva sbagliato previsione: tenni 50 spettacoli e il giorno della partenza un altissimo generale indicando me e l'alto funzionario (rientrato frattanto precipitosamente a Mosca) disse: tra voi due la vera comunista è la signora Zanicchi».

È vero che Fellini avrebbe voluto lei nei panni della Gradisca di «Amarcord»?
«Vero. Mi mostrò i disegni di come immaginava la Gradisca e io, senza pensarci troppo, dissi ma questa è Sandra Milo...! e lui di rimando Zanicchina sei furbina. Ma dopo tre giorni di frequentazione s'inginocchiò dicendo Zanicchina tu non sei Gradisca... hai un viso troppo distinto. Mi fece sentire per un attimo una gran duchessa tedesca. Poi scoprii che aveva fatto la stessa parte anche con altre; in cuor suo voleva la Milo, che però stava aspettando un figlio, così alla fine scelse Magali Noël... che, truccata, sembrava la sorella di Sandrocchia».

La volle, però, Luchino Visconti.
«Nel '74 inserì Testarda io nella colonna sonora di Gruppo di famiglia in un interno con Burt Lancaster e Silvana Mangano».

Nel '71 ha dedicato un disco alle canzoni di Aznavour.
«Charles è stato l'ultimo grande chansonnier. Cantammo assieme Ti lasci andare davanti alle telecamere di Senza rete: durante lo spettacolo, utilizzando quelle immagini, lo coinvolgerò in un duetto virtuale».

L'anno prima aveva inciso «Caro Theodorakis... Iva».
«Registrai quell'lp mentre Miks era in prigione ad Atene, vittima del regime fascista dei colonnelli. Riacquistata la libertà, fu ricoverato in una clinica di Roma. Andai a trovarlo per fargli ascoltare il disco. Con lui c'erano altri tre dissidenti: mentre la musica andava, iniziarono a piangere tenendosi per mano senza dire una parola».

Formidabili quegli anni.
«Proprio in quel periodo rappresentai l'Italia ad un concorso internazionale che si svolgeva a Cannes in cui Bécaud si presentava per la Francia, la Rodrigues per il Portogallo, una giovanissima Dee Dee Bridgewater per gli Usa. Il maestro ingaggiato per accompagnarmi veniva dal jazz, non se la sentiva di dirigermi in un pezzo per lui banalotto come La riva bianca la riva nera. Umiliata, trovai un compromesso, poi trionfai in scena, abbracciata da Bécaud. Tornando in camerino incrociai il riluttante maestro e, visto che eravamo in Francia, gli rivolsi un tu es merde dal profondo del cuore».

Il prossimo anno «Zingara» compie 50 anni. Le piacerebbe tornare a Sanremo dove con quel brano vinse nel 69?
«Non mi dispiacerebbe. Avevo già vinto due anni prima con Non pensare a me. Sono nata al Festival, gli voglio bene e gli sono grata per tutto quello che m'ha dato, ma ho un pessimo ricordo dell'ultima volta, nel 2009. Benigni nella sua esibizione mortificò me e la mia canzone, Ti voglio senza amore, arrivato il mio turno trovai il gelo in sala. Non avendo sentito il monologo rimasi esterrefatta e ferita come donna, come mamma, come nonna. Benigni poi l'ho perdonato perché è un grande comico e la satira è la satira, ho perdonato meno il presentatore (Bonolis - ndr) e agli organizzatori di quella edizione (Mazzi/Presta - ndr). Per questo vorrei chiudere la mia storia sanremese con una presenza diversa. Da parte ho una canzone che è la fine del mondo, firmata Luis Bacalov. A buon intenditor, poche parole».
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