Il ritorno di Bob Dylan nudo e crudo: sangue sulle canzoni

Bob Dylan
Bob Dylan
di Federico Vacalebre
Sabato 3 Novembre 2018, 14:41 - Ultimo agg. 15:01
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Per qualcuno, magari più di qualcuno, sarà solo una lagna voce e chitarra, roba da antiquariato, persino senza autotune. Ma per la Brigata Internazionale dei Dylaniani Dylaniati assomiglia molto al Santo Graal, almeno quanto i sei dischi dedicati a «Tha basement tapes». Siamo arrivati al volume 14 delle «Bootleg series» e, lo dice il titolo stesso, «More blood, more tracks», indaga sul capolavoro del ritorno al suono acustico, «Blood on the tracks», di Robert Allen Zimmerman, da Duluth, Minnesota, l’uomo che ha messo l’arte nel jukebox e il rock nel Premio Nobel.

Dato l’addio al ruolo di menestrello folk e di portavoce di una rivoluzione che non è venuta (se non sul fronte sessuale), messa la spina e regalata l’elettricità all’arte del songrwiting, dopo essere caduto dalla motoclicletta interrompendo per un bel po’ la sua corsa, non solo materialmente, Bob Dylan affrontava gli anni Settanta con disagio crescente: tutto gli era sembrato facile agli esordi, i capodopera nascevano spontanei e sembravano avere la forza di cambiare, se non il mondo, almeno la musica che gli/ci girava intorno. Ora tutto era diventato maledettamente più complicato, serviva metodo, mestiere, stile, concentrazione, non solo ispirazione urgente e bruciante. Gli ultimi lp («Nashville skylyne», «Selfportrait», «New morning», « Dylan» e «Planet waves») avevano aggiunto qualche canzone immortale, qualche sorpresa e spigolatura, ma poco più. L’ex mister Tamburino decise di guardare indietro per andare avanti, di studiare pittura con lo stravagante Norman Raeben, di affrontare la crisi del suo matrimonio con Sara causata non solo dalla relazione con Ellen Bernstein, una delle tante donne con cui ha tradito la madre dei suoi primi quattro figli. Come? Con il più semplice e complicato dei metodi: un disco-seduta autopsicanalitica, peraltro destinato alla leggenda.

È il 16 settembre 1974 quando entrò nello studio A della Columbia a New York: ci restò quattro giorni, armato di chitarra, armonica e pochi musicisti acustici, tra cui Tony Brown al basso, ne uscì fuori con un pugno di canzoni dolenti, davvero sangue sulle tracce come dice il titolo, destinate ad entrare tra i classicissimi della sua produzione e, quindi, del canzoniere di tutti i tempi. In cabina di regia c’era Phil Ramone, la copertina era pronta, nelle redazioni di giornali e riviste e radio che contano erano stati già spediti degli acetati provvisori per favorire la celerità delle recensioni, ma Sua Bobbità non era convinto, e non lo era nemmeno suo fratello, David Zimmernan. Il cantautore tornò in sala di registrazione, stavolta negli studi Sound 80 di Minneapolis e rimise mano ad almeno cinque pezzi, fece ascoltare quello che stava venendo fuori all’amico-collega Neil Young, poi diede alle stampe un album che teneva insieme le due session, accelerando tutte le registrazioni, come si usava allora. «Blood on the tracks» fu un successo, primo in classifica in Usa, Nuova Zelanda e Canada; secondo in Norvegia; quarto nel Regno Unito, quinto in Olanda. La stampa specializzata era perplessa: «Gli accompagnamenti spesso così scadenti suonano come dei meri esercizi» scrisse Nick Kent sul «New Musical Express», «l’album è stato realizzato con la tipica roba di scarto», azzardò John Landau su «Rolling Stone». La storia darà loro torto, l’lp finirà per essere considerato - più che a ragione - unanimamente tra gli apici della scomoda e contraddittoria opera dylaniana e dylaniata, forte di perle come «Tangled up in blue», «Simple twist of fate», «Shelter from the storm», «If you see her, say hello», «Idiot wind».

Nelle sue varie edizioni, «More blood, more tracks» (il cofanetto deluxe è in tiratura limitata, con la promessa di non ristamparlo mai più per conquistare i collezionisti), riportandoci alle session nude e crude newyorkesi (voce e chitarra, più al massimo un’armonica e il basso di Brown) ci conduce dietro le quinte di un processo creativo in divenire, peraltro già studiatissimo nei decenni scorsi grazie ai tanti bootleg testimonianza delle traversie da cui nacque il disco. Qui, però, i nastri restaurati sono stati riportati alla velocità originale e con pudore si entra nel laboratorio dell’artista più controverso e importante del Novecento.

I testi sembrano autobiografici, raccontano la pena, il dolore provocato a se stessi e alle persone più care, la condanna al distacco. Dylan smentì di parlare di se stesso e della moglie, e del divorzio a venire (quattro anni dopo), assicurò di essersi ispirato ai racconti di Cechov e alle lezioni del suo maestro di pittura e, in effetti, i temi cari al russo ci sono tutti, come la capacità di dipingere storie, emozioni, personaggi, scene, assenze, presenze: «Raeben non ti insegnava tanto a dipingere o a disegnare», spiegò, «ma a mettere insieme la tua testa, la tua mente e i tuoi occhi, per farti cogliere e riprodurre in modo visivo qualcosa di concreto... Guardava nel tuo animo e ti diceva ciò che eri». E il Dylan nudo e crudo di queste registrazioni ci vede nudi e crudi e ci dice che cosa siamo, eravamo, forse saremo.

Nel disco ufficiale, arrivato nei negozi il 20 gennaio 1975, qualche steel guitar e qualche cornice di tastiere sostiene quel canto-ritorno alle origini del folk e del blues che emerge più prepotente in «More blood, more tracks». Poco stilnovista, anche se in «Tangled up in blue» compare un misterioso «italian poet from the thirteenth century», Bobbissimo cerca redenzione e salvezza nella donna, «Riparo dalla tempesta», ma quella donna (Sara?) la sta perdendo per quello che finge sia un «Banale scherzo del destino». Si muove tra pieni e vuoti, torna alla narrativa popolare («Lily, Rosemary and the Jack of hearts»), sbatte contro la solitudine a cui siamo condannati, la disillusione del desiderio. Insegue la grande bellezza camminando sul rasoio («beauty walks a razor’s edge, someday I’ll make it mine»), sa che comunque, alla fine, si ritroverà di nuovo «on the road / headin’ for another joint». «Aggrovigliato nella tristezza» cita i Vangeli (Matteo 27:35) e si presenta ai fans come un grumo di dolore, rancore, ineluttabile prigioniero del disamore prossimo venturo. Sara o Cechov che siano gli ispiratori, ha messo su vinile le ferite aperte del mal di vivere che portiamo dentro. E Luca Guadagnino sembra che voglia fare un film proprio dalle canzoni di questo disco: New York o Minneapolis session, non farà molta differenza. O no?

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