Toni Servillo: «Il nostro thriller metafisico
contro la tv del dolore»

Toni Servillo: «Il nostro thriller metafisico contro la tv del dolore»
di Titta Fiore
Mercoledì 25 Ottobre 2017, 08:44 - Ultimo agg. 11:59
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L'unico indizio: i capelli tinti di scuro su cui il truccatore innesta la calotta che sul set lo trasforma in Silvio B. Sul resto, Toni Servillo non aggiunge parola. Di «Loro», il film su Berlusconi che sta girando con Paolo Sorrentino, parlerà a tempo e a luogo. Molte cose interessanti, invece, dice del thriller che lo scrittore Donato Carrisi ha tratto dal suo best-seller «La ragazza nella nebbia», stasera in preapertura alla Festa di Roma e poi nelle sale in 300 copie: un giallo ambientato in un immaginario paesino di montagna, Avechot, dove il tempo sembra essersi fermato e niente è come appare. Ad Avechot, il 23 dicembre, una ragazza di sedici anni scompare nel nulla. Come Yara, come Denise, come le oltre cento donne delle quali, ogni anno, in Italia non si hanno più notizie. Servillo è il commissario che si mette sulle sue tracce. Intorno, il circo mediatico amplifica e rilancia il caso con colpi di scena a ripetizione.

Nulla è come sembra, Servillo, e il suo commissario è un cinico capace di usare per il proprio tornaconto la tv del dolore.
«Il mio personaggio, Vogel - che in tedesco significa uccello - plana sul palcoscenico del crimine con l'aria dello stratega che muove le pedine del gioco: il suo atteggiamento mi ha dato la possibilità di giocare di sfumature, lo spettatore vedrà trasformarsi il personaggio sotto i propri occhi».
Tra finti scoop, speculazioni, guerra degli ascolti, «La ragazza nella nebbia» racconta anche le derive mediatiche dei nostri tempi.
«Li rappresenta molto bene. Senza venire meno alle suggestioni del genere, Carrisi mostra con ritmi drammaturgici perfetti la bulimia di notizie che si ferma alla superficie lasciando il male libero di muoversi nell'indeterminatezza. Chi sono le vittime, chi i colpevoli? Alla fine è il male il vero protagonista del film».
Vogel non è il suo primo commissario, che cosa l'attrae di simili ruoli?
«Il fascino di tanta letteratura di genere resta lo scavo dei sentimenti e degli ambienti sociali, penso ai libri di Sciascia, di Camilleri, di Scerbanenco...Sono queste le mie letture in tema».
È un appassionato del genere?
«Non proprio, però mi piacciono le atmosfere di Carrisi, il paese sembra avvolto dall'incantesimo di una favola nera».
Per giocare meglio con il meccanismo della paura.
«In questo thriller non si vede il sangue versato, ed è uno degli aspetti più interessanti del racconto. Il regista non ricorre alla violenza esplicita ma punta con sapienza a una tensione tutta interiore. Non spettacolarizza la paura, la sollecita in profondità. Nessuna concessione agli abbellimenti stilistici, Carrisi ha riscritto il suo romanzo con la cinepresa e questo aspetto mi è piaciuto moltissimo. La sceneggiatura mi sorprendeva a ogni pagina».
Il film si apre con un mistero nel mistero: il commissario esce indenne e smemorato da un incidente d'auto, ma sulla sua camicia ci sono macchie di sangue.
«E Jean Reno, lo psichiatra di Avechot, cerca di capire perché. I nostri colloqui sono quasi metafisici. Abbiamo girato quelle scene di notte, per una settimana, una lunga notte della coscienza».
Quanto rende la violenza al cinema?
«Sono un uomo di teatro e i tragici greci insegnano: la violenza in scena non si mostra, l'allusione è molto più efficace. Se la violenza diventa spettacolo m'interessa meno, anche se non ho una pregiudiziale negativa. Dipende da come si racconta, spesso anche il bene viene banalizzato e non è un bell'effetto. Alla fine è sempre questione di responsabilità e di rigore formale».
Nella narrazione di Napoli la violenza è diventata un nuovo stereotipo.
«Non so se è vero, Napoli ha tante facce ed è sempre capace di smentire l'ultima tesi formulata sulla sua identità. Napoli è Gomorra ma è anche Passione di Turturro, è l'ironia dei Manetti, per fortuna è molto altro rispetto ai luoghi comuni sulla napoletanità».
Preoccupa lo stato di salute del cinema italiano, lei che ne dice?
«Dico che non mancano le idee e i talenti. È vero, c'è meno pubblico in sala, quindi bisogna offrire prodotto per cui valga la pena di uscire di casa».
Chi non esce di casa spesso s'imbatte nella tv del dolore e nel trionfo del circo mediatico: le capita di guardarla, che idea se n'è fatta?
«Non seguo quel tipo di programmi, vado direttamente su Rai Storia e Rai5, preferisco le inchieste e apprezzo la funzione pedagogica della tv».
E in scena a Napoli, quando la si vedrà?
«Tornerò con La parola canta al Diana e con le poesie napoletane al Trianon, tra gennaio e febbraio sarò al San Carlo con Eternapoli di Vacchi e Montesano. Mi piace muovermi in maniera trasversale in teatri a vocazione diversa, mi piace, per esempio, l'idea di portare i versi di Borrelli e Moscato nel cuore della città antica e popolare. Ho affetto per Nino D'Angelo, che ora dirige il Trianon, quando canta una canzone della tradizione partenopea gli sono sempre riconoscente».