Il Papa e Ferito a morte: i copioni inediti dell’Oscar Sorrentino

Il Papa e Ferito a morte: i copioni inediti dell’Oscar Sorrentino
di Titta Fiore
Sabato 30 Giugno 2018, 09:43
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Gli scogli, il mare, un gruppo di ragazzi distesi al sole e il più giovane in piedi, «con le gambe nell’acqua, dedito ai ranci felloni». Il desiderio di una donna «che veleggia altrove», le risate senza pensieri di quell’età in cui tutto sembra possibile... I titoli di testa a caratteri bianchi su fondo nero: il trattamento di «Ferito a morte» come l’aveva immaginato Paolo Sorrentino dopo il successo del suo primo film, «L’uomo in più», alla Mostra di Venezia, quando Mediatrade decise d’investire su di lui.

Quando anche Pedro Almodovar e suo fratello Augustin, s'interessarono da produttori al progetto... Dice il produttore Angelo Curti, anima e memoria di Teatri Uniti: «Paolo mi mandò un messaggino: uno spettro si aggira per l'Europa, poi il film per una serie di motivi, e come spesso accade nel cinema, non si fece, costava dieci miliardi delle vecchie lire, era difficile e a Raffaele La Capria sembrava che cogliesse solo un aspetto di tutto l'impianto narrativo del suo celebre romanzo... Però la sceneggiatura era molto bella, fa immaginare un film che nella parte visiva si può sovrapporre alla Grande bellezza...».

In Vaticano, alle nove del mattino di una domenica qualsiasi, di un anno qualsiasi, un cardinale svizzero corre verso gli appartamenti del Papa seguito da diciotto preti trafelati. Ai piedi del pontefice «un cadavere che ci dà le spalle, disteso per terra in modo ordinato» squarcia «la quiete immacolata» dei luoghi. Non sarà il solo di quei giorni convulsi. In tre settimane, in Vaticano, muoiono avvelenate quattro suore, l'ultima mentre partecipa alla commissione che dovrà decidere chi far cantare davanti al Papa, se i Prodigy «con quel leader che sembra la reincarnazione del demonio», o il più rassicurante Ramazzotti. Il Papa che Sorrentino aveva immaginato per questa storia singolare che, anch'essa, non vide mai la luce, era anziano, malato, con «un braccio sempre tremolante» segnato dai buchi delle iniezioni, pochi capelli bianchi e lo sguardo buono reso «apparentemente feroce» dalla sofferenza. Diversissimo dal personaggio giovane, scattante, imprevedibile interpretato anni dopo da Jude Law in «The Young Pope», eppure nel soggetto di «Il Papa ha il mal di testa» (così s'intitolava) ci sono molte suggestioni che poi ritroveremo in quella serie sorprendente.
 
Fanno parte, queste due chicche inedite, della grande mostra che si inaugura domani nella Sala Dorica di Palazzo Reale a Napoli, sui trent'anni di Teatri Uniti, il «laboratorio permanente per la produzione e lo studio dell'arte scenica contemporanea» fondato da Falso Movimento, Teatro dei Mutamenti e Teatro Studio di Caserta e che, grazie al talento eversivo di Mario Martone, Toni Servillo e Antonio Neiwiller, seppe rivoluzionare la drammaturgia facendo di Napoli, nella seconda metà degli anni Settanta del secolo scorso, un vero e proprio crocevia di nuovi linguaggi artistici.

La mostra, questa prima tranche della mostra che poi avrà delle appendici e la sua conclusione in autunno con un documentario su «Elvira», uno spettacolo di Andrea Renzi e un convegno testimonia «la dimensione plurale» di Teatri Uniti e la capacità dei suoi artisti di fare sistema intorno a un progetto visionario in grado di svariare dalle tavole del palcoscenico ai fermenti creativi del cinema, della musica, delle arti visive, «transito» di sodalizi fecondi fortemente radicato sul territorio eppure, per dirla con Servillo, dotato di «una natura scarrozzante che da Napoli ci ha portati nel mondo». Curato da Maria Savarese e promossa dalla Regione Campania, l'esposizione è divisa in capitoli tematici e temporali e racconterà la storia e i sogni, il tanto che è stato fatto e i programmi rimasti nel cassetto, «il realizzato e l'irrealizzabile». Il tavolo sorrentiniano, in tal senso, è emblematico di un percorso in progress, mai adagiato su risultati raggiunti, rivolto a traguardi sempre diversi. Tra le curiosità del segmento, anche la motivazione del premio vinto dal neoregista con il corto «L'amore non ha confini», nel 1999, che poi gli avrebbe aperto la strada per «L'uomo in più». Insomma, è come se «Trent'anni Uniti» si proponesse di riannodare i fili di una creatività che privilegia l'inclusione, il confronto, la dialettica all'esercizio solitario dell'espressione artistica.

Non a caso su «Elvira», lo spettacolo campione d'incassi che Toni Servillo ha tratto dalle lezioni di Jouvet e recitato a Parigi nel suo teatro, all'Athenee, Paolo Sorrentino potrebbe realizzare un documentario, come già fece per gli allestimenti eduardiani di «Sabato, domenica e lunedì» e «Le voci di dentro». Il progetto e il desiderio ci sono.
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