Patierno apre la Mostra di Venezia: «Così racconto la camorra»

Patierno apre la Mostra di Venezia: «Così racconto la camorra»
di Titta Fiore
Mercoledì 29 Agosto 2018, 12:00
3 Minuti di Lettura
VENEZIA - Dice Francesco Patierno: «Camorra comincia laddove finisce Napoli 44, il mio ultimo film».

E quindi?
«Con gli americani arrivano le sigarette, nasce il contrabbando, si sviluppa un mercato nero importante. Il ponte tra le due fasi è evidente».

«Camorra» è il documentario, meglio, il film di montaggio che il regista ha realizzato utilizzando i materiali, talvolta inediti, sempre preziosi, delle Teche Rai. Alla Mostra, che si apre oggi, si vedrà il 2, nella nuova sezione «Sconfini», sulla terza rete passerà il 4 settembre, in prima serata, con tutti i crismi dell'anteprima di qualità. Patierno ha scelto di raccontare un periodo preciso, gli anni dal 1960 al 1990, perché, spiega, queste due date raccontano altrettante cesure nella storia della criminalità organizzata del Napoletano. E quindi della città. Lo ha fatto alla sua maniera, andando controcorrente, rifuggendo le letture politicamente corrette dei fenomeni sociali, scavando nei documenti alla ricerca del particolare insolito, della chicca illuminante. «Volevo una narrazione più profonda, più emotiva, realizzata con il cuore e con la pancia».
 
In altre parole, non si è messo sulla scia di «Gomorra».
«A che cosa mi sarebbe servito? Solo a fare una cosa annacquata. Non era questa la mia intenzione. Gomorra ha creato un immaginario assoluto, che poi è degenerato. Chi non conosce Napoli ne ha un'idea modellata su quelle immagini. Noi napoletani sappiamo che non è così. Io ho cercato di andare alle radici di un fenomeno».

E che cosa ne è venuto fuori?
«Le istituzioni, in maniera scientifica, hanno sopperito alla mancanza di risorse e gestito il territorio rendendo legale l'illegalità. Tra i materiali delle Teche ho trovato, per esempio, un'intervista al sindaco Valenzi, uno dei migliori che la città abbia avuto, che analizza e finisce per giustificare il contrabbando delle sigarette, che a quei tempi era paradossalmente un ammortizzatore sociale. Il passato è uno specchio eccezionale del presente. Nei servizi di inviati di rango come Marrazzo, Necco, Bisiach ho ritrovato molta della Napoli di oggi».

Il leitmotiv del film è «Napoli non è una città ribelle».
«Condivido l'analisi di Isaia Sales, che ha collaborato non a caso alla sceneggiatura. Ho sempre pensato che la città nel tempo si sia abituata ad occultare la sua vera essenza: ride e strepita per non mostrare il suo dolore. Napoli è anarchica, non rivoluzionaria. Anche se negli ultimi tempi le riconosco forti segnali di cambiamento. È come se i napoletani avessero finalmente capito che la legalità porta investimenti e soldi. Prendiamo il calcio...».

Parla da tifoso?
«Da tifoso e da osservatore attento. De Laurentiis ha portato nella squadra, e quindi nella città, una mentalità diversa da quella furbetta del colpo di mercato, del fumo negli occhi. In tutti i campi contano le regole, non i risultati immediati. Ho citato il calcio, ma potrei parlare dell'arte, della cultura. Quando ti abitui a vincere, cambia tutto. Quando vinci l'atavico complesso di inferiorità sparisce».

Il film parte dal contrabbando, passa per la storica intervista fatta da Joe' Marrazzo a Cutolo dietro le sbarre e si chiude con il caso Cirillo.
«Sì, non volevo perdermi nel mare magnum di un tema infinito. In quegli anni accadono cose importanti che completano un ciclo. Ho trovato tanti spezzoni inediti e interessantissimi, come la telefonata tra il brigatista Senzani e la famiglia dell'assessore Cirillo sull'entità del riscatto attraverso la mediazione della camorra. Quando vedi certe cose... Il passato insegna. La cosa più semplice, per un autore, sarebbe stata puntare il dito, mettersi dalla parte dei buoni e giudicare».

Invece?
«Invece volevo raccontare un'umanità sofferente. Le immagini della gente accalcata nei bassi tra i topi, una popolazione inerme, erano importanti per far capire come nascono certi fenomeni. Ho voluto fornire a chi ha occhi per vedere uno strumento analitico ma anche emotivo. Perché non ne posso più delle semplificazioni e dei moralismi di accatto. Qui è in ballo il destino di tutti».
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