La posta dei lettori
al tempo dei social

di Pietro Gargano
Domenica 15 Luglio 2018, 11:04
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Fare il giornalista al tempo dei social media non è un giro di valzer. Uomini di cultura e di talento avevano dato l’allarme per tempo. Umberto Eco, ad esempio, disse che “danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, ora hanno lo stesso diritto di parola di un Nobel. È l’invasione degli imbecilli. «Lo scemo del villaggio è stato promosso a portatore di verità». 

Eco invitò i giornali «a filtrare con un’équipe di specialisti le informazioni di internet perché nessuno è in grado di capire oggi se un sito sia attendibile o meno»Al tempo della profezia non si poteva prevedere l’entità della minaccia. E anche oggi mancano studi approfonditi sui riflessi dei rituali telematici. Ne sono stati contagiati perfino gli amanti dei giornali di carta. Le rubriche di posta dei lettori, pur non valendo da sondaggio demoscopico, possono indicare i mutati costumi del territorio e del Paese. E qui, forse, il cronista ha piccoli materiali da offrire. 

Ho cominciato a occuparmi delle lettere al Mattino prima del nuovo millennio. La posta telematica, ma soprattutto quella con busta e francobollo, scaricava più di cento missive al giorno. Erano opinioni e soprattutto proteste, però motivate ed espresse, quasi tutte, in modo corretto, quasi tutte con indirizzo e telefono, in modo da poter verificare. L a segnalazione di un errore, con adeguato commento, provocava rapidi rimedi con relative scuse, se non le dimissioni almeno di un assessore. Oggi, al massimo, aiuti il lettore ad accelerare la riparazione di una fontana o di una pubblica linea. 

È cambiato il linguaggio, oggi è più aggressivo e più breve, poiché la spettacolarità e la rapidità sono obbligatori in rete. Sull’onda dei social, non si deve criticare, smentire, correggere, bensì asfaltare, demolire, annientare, distruggere. Si pratica una sintassi di guerra. Talvolta il redattore resta incerto. Tagliare e quindi cadere nel brutto e pericoloso vizio della censura? Cambiare le parole troppo dure? Oppure esporsi al rischio di offendere qualcuno e di caricare i toni della denuncia?

Ma il rischio maggiore viene dalla bufale, le così dette fakenews. In sé non è una novità, Mark Twain scrisse che mentre l’informazione ha appena calzato le scarpe, i falsi hanno già fatto il giro del mondo Ma oggi tutto si esaspera. Viviamo in un tempo in cui il reale, il vero, vale molto meno del percepito, del probabile. La falsa informazione fornita da uno solo si moltiplica, diventa virale (come dicono gli esperti). Preso in fallo per aver dato una notizia falsa, il presidente americano Trump ha ribattuto che l’importante è che gli abbiano creduto. Il fenomeno ha contagiato gli interlocutori della carta stampata. L’opinione basata sulle fesserie è diventata un modo di fare politica, poiché crea un brodo di cultura favorevole a certuni. È diventata pure una fabbrica di rancore e di veleni. Purtroppo è anche segno di sfiducia nei confronti dei media tradizionali. 

Tra l’altro distinguere il falso dall’autentico è sempre più difficile. Il rischio è la crescita nelle redazioni della disponibilità, perfino in buona fede, a gonfiare la notizia e nel pubblico ad accettare l’operazione, «meglio avere notizie esagerate che restare senza notizie». Invece resiste il dovere di riferire solo notizie vere, dopo averle controllate a fondo. Ma la verifica è sempre più ardua, poiché in un mondo dominato dalla fulmineità la bufala sul web arriva molto prima. Su Facebook proliferano le foto per attirare lettori, poiché una notizia lunga, da sola, ha poche possibilità di essere letta. 

Un altro problema è rappresentato dalle citazioni fasulle, che hanno invaso pure le lettere ai giornali. Sul web certe frasi diventano semplice didascalia dell’immagine di un personaggio famoso che con quelle parole non ha nulla a che fare. Prendete questa citazione: «Ripetete una bugia cento, mille, un milione di volte e diventerà una verità». È di Goebbels ma il propagandista di Hitler non è citato da nessuna pare. I nazisti furono maestri di bufale, in genere lo furono i dittatori. Invece Pertini non ha mai detto la frase che appare sotto la sua foto: «Quando un governo non fa gli interessi del popolo bisogna cacciarlo con pietre e bastoni». Gli amanti della carta sono sempre più attenti a questi giochi di parole. Io ho fatto addirittura autogol. Avendo confuso i Seneca sono stato additato al pubblico ludibrio, in un sito specializzato sull’informazione, da un lettore di solito cortese. 

I giornali si sceglievano per le firme, in rete prevale l’anonimato. Fare leva sui sentimenti primitivi, calunniare i diversi da noi, vedere complotti dovunque, può creare steccati di paura e perfino abituarsi a cadere negli stessi vizi. Albert Einstein diceva che le bugie si possono riconoscere molto più facilmente rispetto alla verità. Non è più così. E il pericolo di infezione deve spingere a raddoppiare i controlli sull’esattezza di quanto ci scrivono. Un giornale non è mai un contenitore, di urli e di odio, un produttore di opinioni mistificate, Dispone di spazio sufficiente per tentare di farvi capire davvero che sta succedendo intorno a noi. 

Per fortuna resiste la cronaca indiscutibile, non manipolabile. Il felice salvataggio in Thailandia dei dodici ragazzi calciatori e del loro allenatore non dà gioia solo sul piano umano. Dimostra altresì che possono essere tuttora vittoriosi sentimenti dati per superati, come il senso di squadra, di solidarietà globale, di fierezza nazionale. Pure al tempo dei social media un cronista ha fatti sicuri da raccontare, buone notizie da inseguire, lettere serie da stampare. Siamo partiti da Eco, con lui concludiamo: «Non sperate di liberarvi dai libri e dai giornali di carta». 
 
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