Dalle origini all'Unesco, «La pizza» di Luciano Pignataro è una storia contemporanea

Dalle origini all'Unesco, «La pizza» di Luciano Pignataro è una storia contemporanea
Lunedì 3 Dicembre 2018, 12:00
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Per alcuni mesi, nel tempo libero del fine settimana, ritirato nel suo piccolo giardino chiuso da vecchie mura di tufo, il mio amico Gianni L., che di mestiere fa il medico, lavorò con dedizione alla costruzione di un forno in pietra. Il forno occupava i nostri discorsi ogni volta che ci vedevamo, anche solo per un minuto: Procede? Procede. Le misure quali sono? Giuste Sta venendo bene? Lo capiremo solo quando ci cuociamo qualcosa Non volevo vedere il forno finché non avesse preso la forma caratteristica a igloo, ma stavo a sentire le varie questioni e gli intoppi raccontati dal suo improvvisato ma paziente costruttore. Finché, un giorno di settembre, Gianni disse: Il forno è finito.

Allora nel gruppo di amici, che si riunivano nel giardino per onorare gli dèi del cibo e del vino protetti da una statuetta del Sileno Ebbro, si scatenò una discussione profondamente filosofica su come bisognava inaugurare il forno per fare onore al lavoro del nostro amico.... E a lungo discutemmo di ricette, di cotture lunghe, di legna profumata, della radicale differenza tra pesce e carne che potevano forse riunificarsi nel baccalà o nello stocco, anche se tutti sapevamo, mentre difendevamo l'una o l'altra ipotesi, che si trattava di oziose divagazioni da gastrosofisti postmoderni, e quando il costruttore del forno disse: Ma, anche se è difficile, non si dovrebbe inaugurare con la pizza? non c'era più niente da discutere. Tutto era come doveva essere.

La pizza, e qui non aggiungo napoletana o non napoletana perché per me c'è in realtà una sola pizza, ha qualcosa di radicalmente essenziale e arcaico: e viene definita, per le sue caratteristiche di fondo, un cibo semplice. Ma che vuol dire semplice? Nel cibo che sgorga dal cratere Napoli la semplicità è un concetto assente: cibo semplice non vuol dire nulla, qui, e non fa vibrare alcuna corda né del cuore né della mente né del palato. Qui qualsiasi semplice fresella con il pomodoro e l'origano e l'aglio diventa un'arte fragile e complessa che può essere ulteriormente perfezionata, che deve essere perfezionata: chi sa davvero qual è la giusta spugnatura di una fresella, tanto per dire? E anche quella che sembra una semplice o ridicola mania, vale a dire il fatto che chiunque viva nel raggio magico che si irradia da Napoli per non più di trenta chilometri pensa di sapere come sia una pastiera perfetta o una parmigiana perfetta o un vermicello a vongole perfetto, anche questo non è affatto semplice o ridicolo: è rivelatore. La verità è che la Pizza ideale da cui discendono tutte le pizze imperfette, proprio come Platone diceva che esistono le Idee perfette da cui discendono le cose imperfette, esiste davvero: e senza dubbio qui, nel cerchio magico del cratere-Napoli in cui la pizza ha trovato sé stessa emergendo dal sottosuolo, tutti hanno assaporato almeno una volta la pizza ideale...

Su questa via il libro di Pignataro è un perfetto vademecum per smarriti perché rifiuta i ridicoli fondamentalismi ma non accetta qualsiasi cosa solo perché è new, un vademecum che ci conduce nella Storia: a cominciare dalle ipotesi molto probabili sulla pizza come figlia del Mediterraneo e poi figlia della Napoli spagnola e poi figlia della Rivoluzione del 1799, e arrivando alla contemporaneità del cornicione a canotto e delle innovazioni su farine e impasti, finché il lettore, che è un mangiatore di pizze e vorrebbe mangiarle tutte e dovunque, non entra in una sorta di relativismo benevolo e comincia a sussurrarsi un mantra pacificatore: Qualsiasi pizza è buona, se è buona. Una verità pratica indiscutibile, ma non una verità essenziale. E naturalmente Luciano è troppo sottile e raffinato per essere buonista in fatto di cibo, e dice cose indiscutibili su ciò che rende una pizza napoletana una pizza realmente napoletana, per esempio il forno a legna a igloo con la bocca stretta: e avendo detto che il bianco è bianco e il nero è nero, può poi portarci da vero storico della pizza a Chicago o in Brasile o a Roma, e può dare alle versioni autoctone della pizza nel mondo il loro merito, e può inseguire i miglioramenti citando i pizzaioli che hanno fatto la Storia della pizza ieri e oggi, la Storia del disco di farina acqua e lievito coperto da quasi qualsiasi cosa e infilato in forno per una brevissima manciata di minuti. Ma noi che storici non siamo perché totalmente privi di obiettività gastronomica, possiamo invece giocare, ciarlando come si fa dopo un pranzo con amici in cui si è sapientemente onorato il dio della vite. E per gioco possiamo chiederci, più o meno retorici: ma una pizza che non conserva la caratteristica di una pasta che sia sottilissima ma non biscottata né gommosa, tanto sottile da dare l'idea che non si rompa solo per miracolo, una pizza che si allontana da questo non è forse lontanissima dall'archetipo della Pizza? E possiamo chiederci, con stupito candore: ma non è che il rinforzo dato alla pasta della pizza, con l'avvento del cornicione a canotto e la fine della sottigliezza elasticamente sublime della pizza cotta a perfezione che però secondo gli abbandonati dal Dio della Pizza sarebbe cruda, non è che tutto ciò è solo un mezzo per poter accumulare sulla pizza rinforzata e non più sottile più roba facendola quindi costare di più?

E possiamo chiederci, con divertito spirito appena un po' controriformistico: siamo sicuri che l'abbondanza di ciò che sta sulla pizza, completato spesso da un cornicione imbottito, non sia, dal punto di vista del gusto che c'è in un morso di pizza essenziale, uno squilibrio del delicato equilibrio che deve esserci tra pasta e condimento?

Ma alla fine, grazie agli dèi che vegliano sul cibo, le risposte o le non risposte vengono spazzate via da ogni morso che affondiamo in una pizza, quel morso preceduto dall'invasione del profumo, l'indefinibile profumo in cui mai nulla dovrebbe sopraffare l'aroma del forno a legna, il profumo che si confonde al morso affamato che diamo alla pizza, il morso affamato senza il quale non ha senso mangiare una Marinara o una Margherita elementari e non ha senso nemmeno mangiare le loro evoluzioni e elaborazioni. In quel morso si concentra la visione e appare, velata dal vapore sottile che viene dal piatto, la vera pizza: e per un attimo tu chiudi gli occhi e assapori tutto insieme la memoria e il presente, e il futuro che è un sogno.

Lettore, mi senti? Lo senti quel profumo? Te lo ricordi? Allora fallo, sul serio, chiudi gli occhi per un istante al primo morso affondato nella pizza che ti sei scelto, e se è quella giusta ricorderai ogni cosa, anche le cose che non hai conosciuto: il minuto di festa che viene strappato a una giornata inutilmente laboriosa, il rito familiare non più noioso o crudele ma incredibilmente felice, i bambini di fianco ai vecchi e tutte le età mescolate in uno stesso desiderio, la pizza piegata come un fazzoletto in quattro parti da portare in strada per mangiarla sui gradini di una vecchia chiesa in rovina non sapendo bene come mangiarla senza farsi cadere tutto il sugo bollente sui vestiti, ma trovando in questa difficoltà un'ulteriore festa avventurosa, e poi altro che non si può dire, ma solo assaporare, annusare e toccare, evocando in un morso quel Tempo che credevi perduto per sempre. Lo sai bene, lettore: a Milano, a Helsinki, a Cape Town, a Pechino, a Dubai o a Napoli, il morso affamato, solo quello è essenziale, il morso affamato che cerca in un attimo sapore e ricordo.
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