Jobs Act, 80mila contratti terminati:
la riforma arriva alla prova finale

Jobs Act, 80mila contratti terminati: la riforma arriva alla prova finale
di Nando Santonastaso
Giovedì 11 Gennaio 2018, 09:42 - Ultimo agg. 15:02
7 Minuti di Lettura

I primi contratti scadono in questi giorni e non sono pochi se si considera che solo tra gennaio e febbraio 2015 le assunzioni con esonero contributivo al 100 per 100 furono oltre 275mila, come all'epoca calcolò la Fondazione dei Consulenti del lavoro. Parliamo del bonus previsto dalla Legge di stabilità 2014 che dopo l'approvazione del Jobs act aprì la strada ad una importante rivoluzione (solo in parte realizzata) nelle politiche attive del lavoro in Italia. Alle imprese veniva offerta la possibilità di nuove assunzioni a tempo indeterminato (con i contratti a tutele crescenti introdotti dal Jobs act) attraverso una decontribuzione fiscale al 100 per 100, poco più di 8mila euro a contratto, per una durata di tre anni. Una svolta almeno nelle intenzioni, come il tempo ha poi dimostrato, che ha sicuramente permesso al Paese di recuperare molti dei posti di lavoro persi durante la crisi 2008-2015 ma che strada facendo non ha spento l'allarme precarietà, tornato a livelli preoccupanti nel 2017. 

Secondo i dati raccolti dalla Uil, nei primi nove mesi dello scorso anno il livello di flessibilità raggiunto dai rapporti di lavoro attivati supera l'82,5%, la percentuale più alta dell'ultimo quadriennio. Non è un rilievo statistico qualsiasi perché sembra confermare le perplessità di molti secondo cui alla scadenza del triennio, i contratti nati attraverso la decontribuzione totale quasi interamente pagata nel 2015, va ricordato, da risorse originariamente destinate alla crescita dell'occupazione del solo Mezzogiorno - potrebbero non avere futuro. In altre parole: se la tendenza di ricorrere sempre più a contratti a tempo determinato, diventasse come tutto lascia supporre, la costante del mercato del lavoro rischierebbero di non avere più certezze di continuità le centinaia di migliaia di posti garantiti finora dal bonus assunzioni. 

La fine del bonus assunzioni rischia di portarsi dietro anche le centinaia di migliaia di posti da esso finora garantiti. Ma le cose stanno davvero così? E quanti, secondo valutazioni forzatamente approssimative, potrebbero essere gli occupati senza futuro una volta terminati gli incentivi?
 
Partiamo da una certezza: l'impresa che per motivi economici (oltre che ovviamente per giusta causa) può licenziare senza reintegra i suoi dipendenti con contratto a tempo indeterminato oggi ha le porte spalancate dalla riforma dell'articolo 18, uno dei nodi più controversi della riforma del Jobs act. Caduto il vecchio tabù, insomma, perderebbero quota i dubbi sollevati dalla fine dell'incentivo all'assunzione: «Se un'azienda è in crisi, la decontribuzione e i suoi effetti passano forzatamente in secondo piano», conferma con l'abituale onestà intellettuale il segretario confederale della Uil Guglielmo Loi, uno dei più competenti in materia. E aggiunge: «Naturalmente certe decisioni hanno un costo spesso non trascurabile per l'azienda e quindi vanno valutate con attenzione anche perché rinunciare a personale assunto tre anni prima dopo averlo formato e inserito nel processo lavorativo, giorno dopo giorno, non è affatto scontato».

Dunque, se non esistono i presupposti del licenziamento, è proprio sui costi che bisogna allora ragionare. L'azienda che conferma il contratto anche dopo il triennio di decontribuzione (attenzione: nel 2015, come ricorda l'Inps, il bonus ha interessato solo i due terzi dei nuovi assunti e spesso ha favorito il passaggio dai contratti a tempo a quelli a tempo pieno, senza creare sempre posti ex novo, cioè) sa che d'ora in avanti dovrà pagare per intero i contributi previdenziali. Il costo del lavoro aumenterà dunque per ogni nuovo contratto del 24% come è facile desumere. Conviene, non conviene? Dipende ovviamente da tanti fattori, primo tra tutti la capacità dell'azienda di programmare il futuro con elementi di certezza. «E il trend di crescita del Paese, che dovrebbe irrobustirsi ulteriormente quest'anno, è sicuramente un forte incentivo alla fiducia delle imprese - dice Maurizio Stirpe, vicepresidente di Confindustria con delega al Lavoro e alle Relazioni industriali -. Non dimentichiamo che chi licenzia non potrebbe poi assumere nessun altro con un contratto a tempo indeterminato per tre anni, quando magari avrebbe bisogno di farlo. In ogni caso non credo che nessun imprenditore voglia privarsi di un investimento sul capitale umano durato tre anni».

Ma è anche vero che il dubbio rimane e che zone grigie (aziende ad esempio che cambiano ragione sociale a fini fiscali per non confermare i contratti di lavoro e riassorbire il personale ad altre condizioni) sono sempre possibili, come insegna il passato. Non è un caso, oltre tutto, che nei primi nove mesi del 2017 la flessibilità nei rapporti di lavoro avviati abbia raggiunto il picco dell'ultimo quadriennio con oltre l'82%. Se ne deve concludere allora che finita la decontribuzione, molte imprese proveranno a trasformare i contratti a tempo pieno in contratti a tempo parziale, vanificando di fatto l'essenza del Jobs act e delle tutele crescenti? «Quando gli sgravi per le nuove assunzioni cessano o diminuiscono dice Guglielmo Loi alle imprese conviene maggiormente sottoscrivere contratti a tempo determinato. Oltre tutto in questi ultimi tre anni la mobilità del lavoro è stata notevole anche con i contratti garantiti dal bonus, non tutti sono arrivati alla scadenza della decontribuzione nella stessa azienda». Dunque, si ritorna al nodo del costo del lavoro: le imprese non troverebbero più conveniente sul piano economico investire nel contratto a tempo pieno e questo persino a prescindere dalla richiesta dei sindacati (non accolta dal governo) di ridurre da 36 a 24 mesi la durata dei contratti parziali. Per incentivare gli impieghi stabili e dunque per riaffermarli anche dopo la fine del supersconto 2015, non è il fattore tempo in quanto tale a incidere bensì, come detto, il fattore economico. «Noi abbiamo proposto di far costare di più la temporaneità dei contratti aumentando per quelli a tempo determinato, ad esclusione del lavoro stagionale o nei casi di sostituzione, il contributo addizionale aggiuntivo dell'1,4% introdotto dalla legge 92 del 2012 portandolo al 4%». Una simulazione, realizzata sempre dalla Uil, dimostra che scegliendo un contratto a tempo pieno anziché uno parziale con un'aliquota al 4%, un imprenditore risparmierebbe 2.379 euro all'anno per ogni assunzione con una diminuzione del 7,6% rispetto al costo dell'altro contratto. Il ragionamento può valere soprattutto per le nuove assunzioni al Sud che anche quest'anno saranno garantite dallo sgravio pieno e quindi potranno pesare di meno sul costo del lavoro. 

Il tema è controverso, la proposta divide le imprese. Al partito degli scettici si iscrive Stirpe: «Intanto - dice il vicepresidente di Confindustria - non credo che nel manifatturiero ci sia questo calo di contratti stabili: i dati vanno esaminati disaggregandoli e in ogni caso non bisogna dimenticare che dopo la crisi oggi un 20% di imprese ce l'ha fatta, un altro 20% ha dovuto arrendersi e il restante 60% è nella fase dell'incertezza e avrebbe bisogno di maggiore stabilità. Per questo il jobs act va confermato e anzi reso strutturale, non solo estendendo ai 35enni la possibilità dello sgravio per le assunzioni ma anche garantendo l'esonero permanente dai contributi. Il contratto stabile a tutele crescenti è decisivo per la competitività delle aziende e non a caso corrisponde alla metà dei nuovi contratti finora sottoscritti con il jobs act: assurdo pensare di rinunciarvi. I contratti a tempo però servono e penso a settori come quelli dei lavori stagionali in cui sono determinanti: il mix tra le due forme dev'essere rafforzato senza penalizzare l'una o l'altra». 

Non è d'accordo il presidente di Confimprenditori Stefano Ruvolo: «Siamo stati tra i primi dice qualche mese fa, attraverso una nostra iniziativa specifica sul Jobs act, a denunciare il pericolo di un forte rinculo occupazionale perché siamo sempre più convinti che crescita e lavoro non si possono generare con politiche di bonus e incentivi ma solo con tagli strutturali al cuneo fiscale.

Il Jobs act ha finito per gravare sul debito pubblico senza intaccare la disoccupazione». 

© RIPRODUZIONE RISERVATA