Elezioni, la sinistra
unita solo in piazza

di ​Massimo Adinolfi
Domenica 25 Febbraio 2018, 10:36
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Alla prima domanda si risponde facilmente, alla seconda è un po’ più complicato. La prima: c’è un comune denominatore che consente alle diverse anime della sinistra di ritrovarsi insieme? Sì, c’è. La manifestazione antifascista di ieri ha visto infatti la partecipazione di Renzi e Bersani, Fratoianni e Gentiloni, Maurizio Martina e Laura Boldrini, Matteo Orfini e Pietro Grasso. Uniti nel dire no ai fascismi e ai razzismi. 

Mentre a Macerata, all’indomani della caccia all’immigrato di colore scatenata per le vie della città da Luca Traini, qualcuno in piazza non era sceso, ieri, dietro le insegne del corteo promosso dall’Anpi, si sono ritrovati tutti. Ma – seconda domanda – quanto dista quel comune denominatore da un’intesa politica? Qui la risposta è più difficile. In politica è come nella fisica quantistica, esistono proprietà complementari: se ne conosci una, la sua complementare rimane necessariamente non definita. Così, se Partito democratico e Liberi e Uguali si congiungono a piazza del Popolo, vuol dire che non può essere determinata la loro vicinanza a Palazzo Chigi. La difficoltà è anzitutto di ordine programmatico: un conto è l’ideale adesione ai valori, un altro è tradurla in concrete misure in materia di politiche migratorie. Basta contare tutti i distinguo e le critiche a cui va incontro la dottrina Minniti, per farsene consapevoli. A non dire di jobs act, scuola e di tutto il resto.

Ma queste differenze sarebbero ancora superabili, in una normale logica di coalizione. La sinistra è pur sempre quella che, nel corso della seconda Repubblica, ha prima dato vita all’Ulivo, e poi messo insieme – comunque se ne giudichino i risultati – l’Unione. Che andava da Bertinotti a Mastella, da Oliviero Diliberto a Francesco Rutelli. Questa volta no: insieme non si può. Siamo oltre la logica classica. Valgono invece le relazioni di indeterminazioni di Heisenberg. Se vuoi scrivere LeU a fianco del Pd, devi lasciare indeterminato il nome di chi guida il partito democratico. Se ce lo metti, se scrivi Renzi, allora la posizione di Leu subito sfuma in un’orbita indistinta, in cui non è più chiaro se prevarrà la responsabilità di dare un governo al Paese, confidando nelle indicazioni che verranno dal presidente della Repubblica, o se invece l’ostilità nei confronti del Segretario del Pd si tradurrà in ferma indisponibilità. 

Le formule che vengono proposte sono le più varie: governo del presidente, governo di larghe intese, governo di salvezza nazionale. Perfino Di Maio si è cimentato in politichese proponendo un governo di programma (lasciando pure lui indeterminato se, chiedendo il voto sul programma, si rivolgerà pure a quei parlamentari che ha espulso ancor prima di eleggerli). In ogni caso, nessuna delle formule in questione si può costituire a partire dalla celebrazione dei valori della Resistenza. Con l’antifascismo non si fa un governo, insomma. Si costruisce un fronte nella pubblica opinione, si mobilita, forse, una parte dell’elettorato che rischia di scappare nell’astensione; si arricchisce l’arsenale degli argomenti polemici nei confronti della destra; si rinsalda un’identità intorno a punti unificanti posti molto in alto, a distanza imprecisata però visibili da tutti, ma non riuscendo a confermarla a quote più basse, dove rispuntano tutti gli ostacoli che in questi anni si sono frapposti all’unità del centrosinistra, un governo non lo si fa.

E allora come? Berlusconi va dicendo che lui conta di farlo arrivando con la coalizione su su fino al 40%. Che poi, se non ci si dovesse arrivare, il Cavaliere cercherà in Parlamento quello che manca, fra transfughi di varie formazioni e centristi in cerca di collocazione. I cinquestelle: loro il governo lo hanno già fatto, hanno usato la cortesia di darne notizia a Mattarella e si apprestano a rivelarlo al popolo tutto nelle prossime ore. Invece il Pd non sostiene più la finzione di poter fare tutto da solo, ma non arriva a indicare il punto politico che sarà probabilmente discriminante. E cioè se, per trovare un accordo largo, sarà necessario dare un profilo tecnico, istituzionale e di garanzia al futuro Esecutivo, o se i partiti politici potranno esservi rappresentati. Di fronte a questa alternativa, si indovina nuovamente la divisione a sinistra. Perché il Pd non ne vuole sapere di governi privi di caratura politica, mentre LeU non ne vuole sapere di Renzi. Per Grasso e D’Alema, è così più facile digerire un esecutivo di grand commis, sotto l’egida del Quirinale, che far nascere una grande coalizione. E però all’una o all’altra soluzione, con i numeri che usciranno dal voto del 4 marzo, non si potrà certo arrivare passando per un’altra piazza del Popolo, ma, semmai, con una realistica e concreta interlocuzione con il centrodestra. Il Teorema di Bell, in fisica quantistica, rifiuta il realismo locale. Niente qui e ora. Rifugiandosi nel cielo lontano dell’ideale resistenziale, la sinistra ha evidentemente trasferito il teorema in politica, almeno per il tempo di questa sorprendente campagna elettorale.

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