Investimenti negati/ Il Paese che rallenta per la cura sbagliata

di ​Paolo Balduzzi
Mercoledì 31 Ottobre 2018, 00:42
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Tutto come previsto, purtroppo. La crescita economica del Paese si è fermata, dopo un periodo relativamente lungo di timido respiro. Non cresce il Pil nel terzo trimestre rispetto a quello precedente e cresce meno del previsto rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso (più 0,8% rispetto all’1,2%): le stime di crescita economica dell’Italia nel 2018 saranno con molta probabilità corrette al ribasso, con tutto ciò che questo può comportare sul livello delle entrate fiscali previste e, di riflesso, sul deficit di bilancio. 

Le Borse e lo spread hanno reagito male, con conseguente peggioramento delle attività patrimoniali dei risparmiatori. Una notizia anticipata, si diceva, tanto da analisti economici quanto da diversi membri del governo. Il paradosso, tuttavia, è che mentre tra i primi l’anticipo di rallentamento dell’economia prescriveva la necessità di uno stimolo all’attività economica stessa, da parte dell’esecutivo l’atteggiamento prevalente sembrava – e sembra – essere quello della giustificazione o della resa. 

Ma da dove deriva questo rallentamento? Certo non può essere attribuito esclusivamente alle responsabilità della nuova maggioranza, proprio perché il preludio di questo trend risale ai periodi precedenti (in particolare, i cali nella crescita delle vendite e della produzione industriale).

È evidente che - da marzo a giugno - novanta giorni di trattative post elezioni abbiano dato preoccupanti segnali di sfiducia a mercati internazionali, istituzioni europee e industriali italiani, che operano anche - se non soprattutto - a livello europeo e che lì scambiano volumi consistenti di ricchezza e di prodotti. Come è altrettanto chiaro che l’effetto dei primi atti del governo Conte non è stato per nulla stimolante: avvio dello smantellamento del Jobs Act, attraverso il cosiddetto “Decreto dignità”; impennata delle tensioni sui mercati e a livello europeo, con conseguente aumento dello spread e della difficoltà di credito per chi fa impresa. 

Dell’insufficienza della manovra economica, infine, si è ormai scritto tanto: solo un timido aumento degli investimenti pubblici, pressione fiscale invariata, aumento della spesa assistenziale. La speranza è che, a questo punto, il passaggio parlamentare possa provare a migliorare i contenuti della legge di bilancio.

Come invertire la rotta, allora? Riducendo l’attenzione e la mole della spesa per assistenza e rilanciando in maniera massiccia quella per investimenti e infrastrutture: un vero e proprio shock per il paese e per la sua economia, interventi finanziabili anche in deficit e tuttavia inattaccabili, opere necessarie per un paese che va letteralmente a pezzi ad ogni nuova manifestazione di normale maltempo. L’assistenza genera nuova assistenza, non certo crescita. 

Ciò è evidente anche a chi rifiuta i modelli economici di sviluppo: l’assistenza non può essere uno strumento ordinario di intervento, perché non potrà mai essere sufficiente per abolire davvero la povertà, perché alimenta nel nostro paese una rincorsa alle rendite di posizione (gli ultimi controlli della guardia di finanza hanno evidenziato sei casi di finta povertà su dieci analizzati). Il lavoro è l’unico vero antidoto di lungo periodo alla povertà, l’unico vero motore di quella crescita che, altrimenti, rischia solo di restare sulle previsioni ottimistiche di un governo che sembra quasi distaccato dalla realtà. Gran parte dell’attività del governo del “cambiamento” sembra dedicata proprio all’esatto opposto, cioè all’esasperazione del “rallentamento”: rallentamento dei tempi per la sua formazione, rallentamento dei tempi per la partenza delle proprie attività, rallentamento dei tempi per l’approvazione dei documenti più importanti (la legge del bilancio in primis). 

Esemplare è l’incapacità di decidere su un’opera come la Tav (abbiamo temuto il peggio anche per la Tap): non si ragiona su come rilanciare e migliorare il Paese ma sul come fermarne lo sviluppo. Per essere davvero governo del cambiamento, e non del rallentamento, serve una prova politica diversa. Non v’è alcun interesse da parte di coloro che non fanno politica di professione ad augurarsi che questo non possa accadere. I cittadini attendono, fiduciosi. Si spera che il treno non sarà ancora una volta in ritardo.
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