Napoli, l’arte in ostaggio di vernici e spray

di Stefano Causa
Martedì 30 Aprile 2024, 23:30
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A Napoli il centro storico è stato inventato pochi anni fa. Esisteva anche prima ma nessuno ci andava. Nel film «Viaggio in Italia» di Roberto Rossellini (1953), Ingrid Bergman rimarrebbe a guardare ilmare dalla camera dell’Excelsior. Oltre un secolo fa uno storico d’arte ventenne, Roberto Longhi, si era spinto in Santa Maria dell’Aiuto, dietro Santa Maria La Nova, quando in quelle chiese non ci entravano neanche gli studiosi locali. E Longhi era piemontesissimo.

Quanto alla Cappella Sansevero, oggi tra le stazioni obbligate di una visita a Napoli, la prima (e unica) monografia di peso sul monumento esce a fine anni ’50 a firma di una giovane Marina Causa. Senza offesa per il principe massone e altre alchimie, sarebbe rimasto un indirizzo per pochi.

Longhi rimase colpito dal libro perché sapeva della nostra pigrizia intellettuale. Nel 1957, all’inaugurazione della Pinacoteca nella reggia di Capodimonte (di cui gli estensori del romanzo di Napoli si guardano bene dal parlare), aveva avvertito: sta nascendo un grande museo europeo, ma nessuno ci andrà perché Napoli è poco curiosa delle sue cose. I musei, caro Longhi, li visitiamo a Parigi. Perciò suona paradossale lamentarsi, come si è fatto per settimane, che un’antologia di Capodimonte fosse finita al Louvre (e non negli scantinati vicino alle scope e al folletto, ma nel miglio d’oro dalla “Nike di Samotracia alla “Gioconda”). I nostri centri storici? Firenze, Venezia, Ferragni dinanzi a Botticelli,il Palio, i Fori e i gladiatori al Colosseo con selfie d’ordinanza e il Canal Grande. Parchi a tema con gli obblighi di gestire i flussi turistici, i residenti assediati che affittano, i b&b, l’universo vegano, i tranci di pizza e la soluzione kebab (“una tribù che balla” cantava Lorenzo Cherubini in arte Jovanotti nel 1991? No, una tribù che mangia!). In una Napoli che negli ultimi vent’anni si vende come nessun altro prodotto, la corsa ai temi da vendere sollecita accoppiamenti poco meno che traumatici: il Cristo velato del Sanmartino, derivativo e un poco effettistico se la gioca con i vicoli raccontati ai primi del ’600 dal Caravaggio (che era lombardo); il mestissimo murale di un calciatore argentino merita un brindisi con limonate di ricaduta ginecologica.

All’ingresso di Forcella, tra San Giorgio Maggiore e il Pio Monte diMisericordia, in uno dei più delicati palinsesti d’Occidente, il San Gennaro di Jorit, in formato maxi king, ha due scippi in volto.

Ed è il primo capo indiano che s’incontra sbucando da San Biagio dei Librai. Murali disegni graffiti su obelischi,fontane, palazzi e facciate. Stracarico di storia e sguarnito di memoria, come ruotato via da se stesso, il centro nostro è una lavagna vuota, una Biennale a cielo aperto. Che da maggio a ottobre si riempie di blatte. Quanto alle scritte, difficile vederle sulle facciate dei Frari a Venezia o in Santa Maria Novella a Firenze. Siti come li chiamano oggi, per cui occorre un biglietto d’ingresso. È giusto pagare per vedere e proteggere Masaccio,Tiziano, Donatello e Brunelleschi? Evidentemente sì: ma non qui. Eppure Donatello lo teniamo ed è tra i tesori meglio custoditi di Napoli. Sta in Sant’Angelo a Nilo, giusto a destra dell’altare. Insieme a Michelozzo ruba lo spazio al San Michele cinquecentesco, supereroe antico moderno in azione a capo altare. Sul lato opposto, uno degli apici del Barocco fiorentino in trasferta, la sconosciutissima tomba dei fratelli Ghetti. Vale la pena di entrare, pregare e vedere questa staffetta di tre secoli? Sì e possibilmente senza prima apporre la firma all’ingresso. Chi, come Benedetto Croce, il centro storico dominava in tutti i sensi obiettava che il gusto non si forma ma si educa. “Non c’è gusto in Italia ad essere intelligenti” gli farà eco, da Bologna, cento anni dopo, quel gran genio di Roberto Freak Antoni.

Il meticoloso intarsio di vernici e spray sulla porzione inferiore di Sant’Angelo a Nilo, poco al di sotto delle statue delle nicchie, assomiglia alla copertina di un disco dei Rolling Stones del 1968. “Beggar’s banquet”. Solo che, nel vinile, le scritte decorano la parete sbrecciata di un cesso scassato, non la facciata di una chiesa. Il banchetto dei mendicanti. Con buona pace di Croce potrebbe ribattezzarsi così il tratto di strada da Santa Chiara alla statua del Nilo. Per un centro storico degno di minzione.

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