Il battito d'ali dall'Honduras a Washington

di Loris Zanatta
Mercoledì 14 Novembre 2018, 22:20
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Può il battito d’ali di una farfalla scatenare un uragano? Improbabile, ma sta accadendo: i migranti honduregni stanno sollevando un polverone a Washington. Vi taglieremo gli aiuti se non li fermate, ha tuonato Donald Trump all’indirizzo del presidente dell’Honduras! Intanto la carovana cresce e attraversa confini: quello del Guatemala, poi quello del Messico. Cosa accadrà al confine degli Stati Uniti, dove la gendarmeria è già schierata? 
Fossi un honduregno, è probabile che anch’io cercherei di abbandonare il paese: elezioni truccate, violenza endemica, persecuzioni, impunità, corruzione, narcotraffico, miseria. Come guardare al futuro in tali condizioni? Ma lo stesso farei se fossi cubano o venezuelano, nicaraguense o salvadoregno: difatti anch’essi fuggono. Dirò di più: dovendo lasciare l’Honduras, anch’io punterei a Nord, cercherei un varco per guadare il Rio Grande. Che diamine! Solo lì potrei avere qualche speranza di uscire dalla trappola della povertà. 
Ma se fossi un cittadino statunitense, è probabile che nonostante l’empatia verso quell’umanità in fuga dall’inferno o in viaggio verso la terra promessa, vedrei la questione in altro modo: possiamo accogliere tutti gli honduregni, i cubani, i venezuelani, i saldavoregni? Suonerà cinico alle anime pure, ma la risposta sarebbe: ovviamente no. Chi meglio lo capì, forse perché in quanto a cinismo era imbattibile, fu Fidel Castro. Sapeva bene che i suoi sudditi erano pronti a tutto pur di lasciare l’isola e di tanto in tanto scatenava immense ondate verso gli Stati Uniti, sapendo che li avrebbe messi in ginocchio. La chiamava la sua “arma di invasione di massa”: mai nome fu più azzeccato. E tale arma, si può star certi, è quella che ha ispirato gli organizzatori della carovana che oggi troneggia sui media di tutto il mondo; organizzatori geniali, a loro modo: hanno saputo elevare ad evento globale ciò che da anni è prassi quotidiana in America Centrale. 
Il fatto, prosaico finché si vuole, è che distinguere migranti economici e profughi politici è spesso difficile, in questo caso impossibile; e che il diritto di scegliersi il paese di accoglienza, quand’anche si trovi a distanze siderali dal proprio, sarà anche bello in teoria, ma è di certo impraticabile: i flussi migratori diverrebbero ancor più ingovernabili di quanto già non siano; e i trapianti troppo invasivi, causano pericolosi rigetti: quanti altri esempi ci servono per capirlo? 
Non basta fare il bene, diceva Denis Diderot, bisogna anche farlo bene. Perché un bene fatto male, fa danni e basta, aggiungo. Cosa intendo dire? Che il battito d’ali in Honduras gioverà a Trump in campagna elettorale, un po’ come papa Francesco ha portato senza volere acqua al mulino di Matteo Salvini. L’eterogenei dei fini è sempre in agguato.
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