Contro i cantori del neomediterraneismo

Contro i cantori del neomediterraneismo
di Marco Gatto, Francescomaria Tedesco, Vito Teti
Giovedì 10 Maggio 2018, 16:11
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Le figurine dell'industria culturale sono tutte uguali, ma appaiono più false di quanto siano nel momento in cui ambiscono a presentarsi come pure e impacciate. Capita allora di assistere allo show televisivo di un cantautore sull'onda del successo, il cosentino Brunori, il cui scopo sarebbe nientemeno che di riflettere, col tono sorpreso di chi non desidera altro che condividere i propri profondissimi pensieri in tv, sulla società contemporanea e sui suoi problemi.

E allora, tra una schitarrata e un caffè, il nostro diagnosta della postmodernità, dalle sembianze di intellettuale barbuto e occhialuto, agito dalla consapevolezza di incarnare una qualche supposta diversità culturale, proprio perché artista sano e indipendente venuto dalla provincia estrema, ci conduce alla mirabolante scoperta delle ovvietà più sconcertanti. A condire il tutto la «mediterraneità»: dal tono di voce alla presenza della famiglia, dal campanilismo alla statua di Telesio. Un programma glocal, insomma, che piace senz'altro a chi scambia questa sorta di disorientamento culturale amministrato per novità e per aria fresca. D'altro canto, non sarà il primo né l'ultimo. E mentre sulle rubriche dei quotidiani nazionali il suddetto parla di Sud, paesi sperduti e poesia insieme con qualche meridianista di professione, la Calabria color Super Santos che vorrebbe cantare e dipingere nel più falso e sbiadito dei ritratti continua a sfornare pene e contraddizioni.

E non è questione di rintracciare il «vero» Sud più vero di quello di Brunori o di Franco Arminio, che ne discettano su Repubblica. Amiamo molto una frase di Fortini: «Non c'è vita vera se non nella falsa». Né, d'altro canto, si tratta di sfoggiare un accademismo di maniera contro ciò che è vivo e che si muove là fuori, nella realtà. Si tratta invece di decostruire quel mediterraneismo che inizialmente era accusa di arretratezza, lentezza, pigrizia, pre-modernità, e oggi inverte lo stigma e trasforma quelle accuse in rivendicazioni. Ci troviamo di fronte a un movimento culturale' postmoderno in cui la storia è finita e può essere solo parodiata, ricombinata: è finito il conflitto. Del resto per Arminio la cultura non deve disorientare, il poeta deve stringere la mano e rassicurare. E la Storia è finita anche per i paesi: non si può dice la paesologia, scienza delle soluzioni politiche immaginarie abitarli, né si può prendere atto della loro desertificazione, si può solo sedersi e contemplare in silenzio. Contemplare in una terra dell'essere contro l'apparire, Lamezia contro Milano, la madre ancestrale e ctonia che però è infantile, immatura. Considerare gli «strinari» non più figure drammatiche e intense del dialogo ininterrotto tra vivi e morti, ma personaggi esotici e bizzarri, è uno dei tanti esempi di un'autoetnografia preoccupata più del sé che non della storia della comunità. Del resto il Mediterraneo non è nuovo a queste descrizioni: ne è esempio fulgido la Grecia, la cui imitatio avrebbe dovuto fondare la cultura europea, ma in cui i greci «veri», quelli contemporanei, furono per sempre silenziati e forclusi.

Così il nostro Sud, relegato in una atemporalità senza fine in cui si ripetono sempre i luoghi comuni, ora rovesciati nel loro contrario assiologico.
E così l'ennesima visione-invenzione di un Sud senza tempo e senza storia avviene quasi con una sorta di indifferenza per le persone che quotidianamente abitano e patiscono, vivono con dolore, luoghi a rischio desertificazione ed estinzione, con i giovani senza lavoro e che fuggono, ancora più dei loro padri, dominati dalle mafie e dai politicanti. «Sempre vi sono paesi che nascono e paesi che muoiono», così argomentava Antonio Marando su Nord e Sud (settembre 1958) per sostenere l'abbandono e la ricostruzione, dopo le devastanti alluvioni del 1951, lungo le coste dei paesi dell'Aspromonte, dello Ionio, delle Serre. Era il periodo in cui la montagna mandava immagini di isolamento e di arretratezza; era il periodo della grande fuga oltreoceano o nel triangolo industriale. Grandi intellettuali, che hanno amato il Sud come Umberto Zanotti Bianco, sostenevano la necessità di ricostruire nei luoghi in cui le popolazioni avevano una storia, un'economia, una cultura e che trasferirli in altri siti significava sradicarli, esiliarli, trasformarli in soggetti assistiti e senza presenza. Molti paesi resistettero, prolungarono la loro agonia; altri vennero abbandonati per sempre. A distanza di circa sessant'anni di quell'evento catastrofico la tendenza non è più all'analisi e al progetto, ma al proclama o allo slogan. Per i nuovi esteti delle rovine, per quanti amano aggirarsi tra i paesi abbandonati, con atteggiamenti neoromantici, appare irrilevante che il Sud dalle previsioni demografiche, appena pubblicate dall'Istat, venga descritto sempre più povero, che si spopola, dove rimangono solo gli anziani a invecchiare, sempre più squilibrato, con un Nord che cresce in popolazione e attira anche le migrazioni dall'estero.

Il Sud si svuota e viene quotidianamente cancellato? E cosa importa? Queste sono preoccupazioni di studiosi e di filologi; a noi, dice Arminio, interessa che «ognuno fa il canto che vuole e nel modo che vuole». E così questa polpetta identitaria che mette assieme, senza mescolare, tardi echi di un retrotopia magno-greca o neo-borbonica, diventa il migliore viatico per un'affermazione tanto gratuita quanto indimostrabile: il futuro è del Sud (naturalmente opposto al Nord) tanto sono tornate le lucciole e gli abitanti rimasti nei paesi continuano a cantare e a riscoprire il prodotto tipico, l'accoglienza e l'ospitalità. In realtà, non si torna mai a quello che si è lasciato. Ogni ritorno è un nuovo inizio. Il ritorno-non ritorno deve, dunque, realizzarsi a partire da un'analisi approfondita di quello che resta, con la consapevolezza che gli antichi legami evocati e oggetto di rimpianto, le relazioni primarie e di solidarietà, vere o immaginate, sono profondamente mutati o non esistono più. Qualsiasi ipotesi di creazione di nuova comunità, di forme inedite di «appaesamento» non può avvenire all'insegna di una sorta di «idealismo utopistico del passato», mitizzato e mai esistito nelle forme di tanti inventori di paradisi perduti. Il ripopolamento o il contrasto dello spopolamento non può che nascere dal basso e vedere come protagonisti quanti sono rimasti e quanti tornano o scelgono un nuovo luogo non in maniera occasionale, ma con un progetto di rinascita, reinvenzione, riorganizzazione dei luoghi. Presuppone capacità di guardare dentro e lontano. Non ai retori dell'identità e della bellezza struggente dei paesi che si svuotano, dove si troverebbero la quiete e la lentezza, ma ai tanti giovani che abitano il Sud, non di passaggio e nemmeno da privilegiati, forse abbiamo il dovere civile ed etico di segnalare che da tutti questi sguardi indulgenti, autoassolutori, autoreferenziali vengono cancellati i problemi, le classi sociali, le differenze. In definitiva, la politica.
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