Armi in via San Carlo: processo al rallentatore, torna libero il nipote del boss

Armi in via San Carlo: processo al rallentatore, torna libero il nipote del boss
di Leandro Del Gaudio
Lunedì 21 Gennaio 2019, 11:30
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È durata poco la sua permanenza in cella, a dispetto delle accuse che gli hanno contestato al culmine di una brillante inchiesta di polizia giudiziaria. Porto e detenzione di armi con matricola abrasa, ipotesi formulata dalla Procura minorile a carico di un indagato protagonista qualche mese fa dell'ennesimo episodio di cronaca nera.

Era il 15 settembre scorso, alle quattro e passa del mattino, alba di paura per i tre giovanissimi a bordo di una Fiat Cinquecento. Ricordate cosa accadde in via San Carlo? Armi buttate (e poi recuperate da un dipendente Asìa), posto di blocco forzato, inseguimento dei carabinieri, arresti in via Medina. Un blitz in parte vanificato per il più giovane dei tre, uno che si porta addosso un nome e una parentela che mette ancora paura negli ambienti di camorra: già, perché a tornare libero - un caso di giustizia a maglie larghe - è il nipote di un boss della camorra degli anni Novanta, a sua volta responsabile di decine di omicidi poi confessati alla Dda nella sua carriera di pentito. Figlio di un uomo ammazzato qualche anno fa, nipote di boss collaboratore di giustizia, oggi torna a piede libero. In suo favore una declaratoria di inefficacia per il ritardo nel deposito delle motivazioni del Riesame dei Minori. È stato l'avvocato Giuseppe De Gregorio, difensore del minore, a sollevare il caso del mancato deposito delle motivazioni e a ottenere dal gip la revoca della misura cautelare per inefficacia del provvedimento.
 
Non ancora 18enne, indagato per quella vicenda che si è consumata all'alba di qualche mese fa, tra il San Carlo e la galleria Umberto. Telecamere funzionanti, un posto di blocco, un dipendente Asìa, ma anche la prontezza dei carabinieri che riescono a bloccare l'auto in fuga. Quella mattina, i tre si erano disfatti di pistole, di armi che puzzavano di camorra (anche se l'aggravante mafiosa non è contestata), e provarono a scappare. Alla guida della Cinquecento bianca proprio lui, il più giovane, il minorenne, quello che si porta appresso il crisma di una tradizione familiare maledetta. Ma ad inchiodare i tre sono le intercettazioni di un giorno dopo, grazie a una cimice piazzata «in ambientale» che svela la trama dei tre complici. Inchiesta a carico di Giuseppe Imparato e Antonio De Pisa, entrambi nati nel 1998, e di E.S., che non fanno tardi a capire di essere sotto accusa per la storia delle armi trovate nei pressi dei giardini San Carlo. E dalle loro conversazioni emerge una sorta di confessione, quanto basta a convincere i giudici sull'opportunità di stringere le manette ai polsi dei tre indagati.

Ma sentiamo i loro discorsi, appena un giorno dopo essere finiti in manette, quando non immaginano di essere intercettati:
Antonio: cosa ti hanno chiesto?
E.S.: niente proprio
Antonio: lo sanno bene che abbiamo buttato quelle cose, fratè, gli ho detto che le abbiamo trovate e che ce le siamo prese per guadagnarci una cosa di soldi, perché noi questo facciamo».

Ma non basta, bisogna allestire la stessa versione, per evitare di tradire la fonte e per cercare di spuntare il minimo della pena, nel corso di un eventuale processo. Ed è ancora Antonio a prendere la parola: «Troviamoci sulla stessa versione, diciamo che quelle pistole le abbiamo trovate all'esterno dello stesso locale, che non siamo entrati e che abbiamo preso le pistole».

C'è un momento di sconforto, quando Giuseppe esclama «che brutta giornata», rivedendosi all'interno di una cella di sicurezza e in attesa di essere interrogato dai carabinieri. Immediata la risposta di Antonio, che prova a rassicurare l'interlocutore: «Non fa niente, vuol dire che hai risparmiato di andare a lavorare, ma tu vedi un poco uno che per guadagnare qualcosa che cosa deve fare».

Poi c'è l'esigenza di proteggere la fonte, quello che ha messo nelle mani di tre giovanissimi le armi da portare a chissà chi. Un tale «Ciccio», sul quale sono evidentemente in corso le indagini, almeno secondo quanto trapela dall'ultima battuta offerta da uno degli indagati: «Mi ha detto Ciccio, se caso mai ci dovesse essere qualche blitz, io queste cose le voglio perdere...». Quanto basta a rendere chiaro cosa ha spinto i tre indagati a gettare le pistole nei giardini di Palazzo Reale prima di ingaggiare una improbabile fuga.
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