Napoli, la vergogna
​cancella il riscatto

di Vittorio Del Tufo
Domenica 11 Novembre 2018, 10:57
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Vergogna è la parola giusta, forse l’unica, per descrivere le immagini della donna sommersa dalle formiche nell’ospedale San Giovanni Bosco di Napoli. Un’immagine odiosa, urticante, insopportabile, che ha fatto rapidamente il giro del web, forse del mondo, vanificando in un attimo le buone intenzioni, o le promesse, che da anni si affollano attorno al capezzale della sanità in Campania. Il banchetto delle formiche sul letto di una paziente intubata parla alla coscienza di tutti. È un fermo immagine - l’ennesimo pugno nello stomaco - che fa il paio con le porte rotte, le barelle nei corridoi, le tac guaste.

Ma anche con le divisioni senza medici, con i tempi di attesa record, con i livelli di assistenza che da tempo viaggiano sotto gli standard e i parametri nazionali. O, ancora, con lo scandalo del reparto dell’Ospedale del Mare chiuso per consentire al personale di partecipare a un party. Rincuora ma solo fino a un certo punto che il direttore sanitario del San Giovanni Bosco, Giuseppe Materazzo, abbia «immediatamente chiuso il reparto di Medicina ordinando la bonifica e la pulizia dell’area». Questa solerzia è piuttosto la prova di quanto negli ospedali cittadini funzionino solo i controlli del giorno dopo, e non quelli del giorno prima. Di quanto la pulizia, la manutenzione e l’igiene siano garantiti solo a babbo morto, per così dire, quando sui giornali deflagra l’unica parola possibile, l’unica parola che in queste ore è sulla bocca di tutti: vergogna.

La danza delle formiche attorno al corpo della donna cingalese ricoverata nell’ospedale di via Filippo Maria Briganti e ridotta in coma dopo un ictus cerebrale è tanto più grave perché rischia di riportare indietro di anni, in un solo giorno, l’orologio della sanità in Campania. È tanto più grave perché travalica i confini del San Giovanni Bosco - un ospedale storico e di frontiera con eccellenze professionali come la Neurochirurgia e la Chirurgia generale - e diventa l’immagine-simbolo di un degrado più ampio. È tanto più grave, in definitiva, perché rischia di vanificare - certamente rende più difficile - il lavoro di chi sta cercando di tirar fuori la sanità campana dalle secche, calando la scure sulle sacche di improduttività, sulle duplicazioni inutili, sul disordine organizzativo. I progressi registrati, negli ultimi anni, sugli aspetti finanziari della sanità regionale sono innegabili, ma non possono bastare. L’attenzione al solo dato contabile - al solo rientro, cioè, dagli eccessi di spesa e alla copertura dei disavanzi di Asl e ospedali - è stata accompagnata solo in minima parte dal superamento del vero disavanzo, quello che si misura in termini di civiltà nei reparti e di standard di efficienza nella qualità dell’offerta sanitaria. Su questo fronte occorre una torsione virtuosa che finora è mancata: uno sforzo che non compete solo a chi governa la sanità in Campania, a cominciare dal governatore De Luca, ma anche e soprattutto a chi la amministra dal basso, ovvero i medici, i responsabili dei reparti, il personale paramedico. 

Un passo avanti e dieci indietro. E un danno enorme alla credibilità della faticosa opera di risanamento pur avviata. Ecco il frutto avvelenato di questo ennesimo scempio, indegno di una città e di un paese civili. Oltre l’indignazione, e la vergogna, il rischio è che si rafforzi la percezione di un sistema sanitario completamente allo sbando, fuori controllo, governato da personale inadeguato. Che cali una pietra tombale sugli sforzi di chi opera per il rilancio di un settore che tocca i nervi scoperti e la carne viva dei cittadini, già esposti a disservizi di ogni tipo. Per questo motivo è necessario non solo chiarire i fatti e risalire alle responsabilità - indagando a tutto campo, anche per escludere un eventuale sabotaggio - ma anche attivare ovunque controlli e procedure a tutela dei pazienti, se necessario attraverso nuovi protocolli di sicurezza. La vera sfida - ben oltre i numeri, i bilanci e i conti da rimettere a posto - è convincere i cittadini che episodi spaventosi come quello che siamo costretti a raccontare non si ripetano più; che gli ospedali possano tornare (o cominciare) a essere luoghi protetti. E civili.
 
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