Arresto di Luca Materazzo, i compagni di lavoro sotto choc: «Aveva uno sguardo di ghiaccio»

(ph. Paola Del Vecchio)
(ph. Paola Del Vecchio)
di Paola Del Vecchio
Giovedì 4 Gennaio 2018, 09:06 - Ultimo agg. 10:37
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Inviato a Siviglia

«Luca era rarito, un tipo strano, meticoloso e taciturno, iba a su bola, sempre per conto suo. Però molto educato, servizievole e gentile con la clientela. All'inizio, circa un anno fa, si limitava a prendere un caffè, spesso anche nulla, e restava seduto a un tavolino in fondo al bar l'intera giornata, al suo computer. Poi un giorno mi ha chiesto se conoscessi un posto dove poter lavorare, anche gratis servendo ai tavoli, per imparare lo spagnolo. Ovviamente gli abbiamo offerto di restare qui e, dopo qualche settimana, il proprietario ha cominciato a retribuirlo, come barista saltuario. Abbiamo festeggiato assieme alla vigilia di Natale, poi ieri, dopo Capodanno, sono venuti tre agenti in borghese ad arrestarlo...».
 
 

Manuel Daza, il trentenne gestore del caffè La Terraza (foto Paola Del Vecchio) nell'Avenida Ramon y Cajal, a due passi dallo stadio Sanchez-Pijuan del Sevilla, come tutti i colleghi che per mesi sono rimasti gomito a gomito con Luca Materazzo, non si è ancora ripreso dallo choc. «Abbiamo scoperto di aver avuto a che fare con un ricercato, uno psicopatico, perché non devi stare bene con la testa se massacri di coltellate tuo fratello...».

È sua la foto postata su Facebook alla vigilia di Natale che ritrae Luca sorridente, il secondo a sinistra, con i compagni dietro il bancone. «Se penso che forse è stata quella foto che è servita alla polizia per arrivare a lui, mi vengono i brividi», dice Manuel. Che era presente anche all'arrivo degli agenti in borghese dell'Udyco, martedì alle due e mezza del pomeriggio, che da tempo erano sulle orme del presunto assassino. «Io pensavo che fossero ispettori dell'Ufficio del Lavoro. Ho visto Luca impallidire, correre in bagno per prendere il suo inseparabile borsone Adidas. Gli ho detto di stare tranquillo e di mostrare il documento di identità, come ci chiedevano gli agenti. Ma lui ha tentato di uscire dal bar, dicendo che doveva andare a prenderlo a casa. Allora uno dei tre agenti gli ha detto di sedersi, e di restare calmo, mentre gli altri due bloccavano le uscite. Ho chiesto loro se potevo portargli da bere, perché era sul punto di svenire. Uno mi ha risposto di sì, ma in un bicchiere di plastica, non di vetro, perché Luca era è un tipo pericoloso. È stato quando ho pensato: ma chi è la persona che ho davanti?».

 


Quaranta fendenti assestati in parti vitali al fratello Vittorio, ingegnere, al rientro del lavoro. Non in un incontrollabile eccesso d'ira, ma - secondo l'accusa - dopo un piano omicida covato a lungo. Eppure qui a Siviglia, nel quartiere Nervion, una «barriada» residenziale di cemento ed edilizia popolare, il 36enne professionista napoletano, il Caino latitante dall'8 dicembre 2016, era per tutti Luca. E basta. «Parlava poco di sé. A noi ha detto che i suoi genitori erano morti di cancro quando aveva 7 anni e che aveva dovuto buscarse la vida, cavarsela da solo.
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