Il fuoco per sterminare, il fuoco per conservare. «In condizioni normali, questi frammenti non sarebbero mai arrivati fino a noi: si sarebbero decomposti molto prima», spiega Valeria Piano, ricercatrice di Filologia classica all'università di Firenze, mostrando nel silenzio ovattato dell'Officina dei Papiri Ercolanesi, nella Biblioteca Nazionale di Napoli, i resti carbonizzati di un antico papiro che finalmente ha un padre certo (o quasi). Grazie alla sua perseveranza, oggi sappiamo che le Historiae ab initio bellorum civilium di Lucio Anneo Seneca non sono andate perdute.
È stata lei, 35enne molisana, a scegliere tra i 125 numeri di inventario relativi ai papiri latini recuperati ad Ercolano nel 1700 e conservati alla Biblioteca Nazionale, il papiro numero 1067, scoprendo così l'unica opera storica conosciuta di Seneca il Vecchio, anche detto «il Retore».
«Ho scelto di concentrarmi su questo perché sapevo che poteva darmi delle soddisfazioni», risponde la studiosa, accennando un sorriso. «Già dagli studi preliminari, per l'eleganza con cui era stato scritto, si capiva che doveva essere un libro di pregio. Inizialmente si pensava fosse un'orazione di un console, Lucio Manlio Torquato, ma le analisi al microscopio e le sovrapposizioni mi hanno fatto capire che si tratta di Seneca padre». Una deduzione fondata soprattutto sul contenuto dell'opera.
I sedici pezzi del papiro esaminato, tutti catalogati con lo stesso numero di inventario e dunque provenienti dallo stesso rotolo, sono infatti relativi all'antica Roma al tempo di Augusto e Tiberio. «Si tratta di un'opera di natura storico-politica che rimanda ai primi decenni del principato. Dal contenuto, e anche per alcuni calcoli cronologici, l'ipotesi che l'abbia scritta Seneca padre è senza dubbio la più probabile. Un'interpretazione che anche altri studiosi e paleografi hanno accolto con favore», dice Piano.
Così, dai corridoi traboccanti di libri, riemergono come magma di una storia che non smette mai di raccontarsi nuovi, decisivi indizi. Frammenti preziosi che la lava e il tempo hanno restituito anneriti, ma comunque almeno in parte leggibili. Tasselli di un puzzle che Valeria Piano ha ricostruito con ostinata accuratezza, al termine di un lavoro certosino di ricostruzione durato un anno sugli scampoli ritrovati nell'antica biblioteca di Filodemo di Gadara, costituita da centinaia di scritti in quella che non a caso ha preso il nome di Villa dei Papiri. «L'eruzione ha salvato quella villa e la sua biblioteca di natura filosofica e in particolare epicurea», conferma la studiosa, che ha passato mesi a ricomporre, decifrare e interpretare le lettere latine incise su un papiro lungo ben 13 metri ridotto in brandelli.
Un'impresa nella quale la tecnologia ha avuto un ruolo fondamentale. «Per esaminare i frammenti ho usato microscopi e immagini multispettrali», spiega la ricercatrice molisana, mentre mostra la ricostruzione al computer delle parole latine annerite dal fuoco. «Ho condotto questo studio nell'ambito del progetto europeo Platinum, che ha sede qui a Napoli, alla Federico II, ed è diretto dalla professa Scappaticcio.