I Cinque Stelle e il pensiero ​della debolezza

di Paolo Macry
Mercoledì 3 Gennaio 2018, 08:34
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Con questo articolo Paolo Macry inizia la sua collaborazione con Il Mattino

A sette anni dalla loro nascita e a cinque dall’exploit elettorale del 2013, i Cinque Stelle restano l’oggetto misterioso della politica italiana. Un rebus per commentatori, partiti, scienziati sociali. Oggi, nei sondaggi, il M5S è accreditato di un robusto 27%. Non l’ha danneggiato più di tanto la gragnola delle incertezze amministrat+ive di Virginia Raggi. Né il recente passo indietro del leader carismatico. Né la genericità (o l’irrealismo) dei programmi. Hic manebimus optime, sembrano rispondere i pentastellati agli scettici. Mostrano un radicamento che forse non si comprende appieno se visto soltanto alla luce della categoria passepartout di antipolitica o di quella altrettanto abusata di populismo.

D’altronde, bisogna riconoscere che una analisi circostanziata del fenomeno è cosa difficile. Il movimento rifiuta la distinzione destra-sinistra, si tiene alla larga dalle coalizioni, disconosce le identità classiste, si qualifica come post-ideologico. È intenzionalmente un’anguilla. Sfugge cioè alle griglie che di solito usiamo per classificare i processi politici. Ammicca alla sinistra dei diritti e alla destra xenofoba, agli europeisti e ai sovranisti, ai mercatisti e ai benecomunisti. Fa il paladino della Costituzione e impone agli eletti un vincolo di mandato schiettamente anticostituzionale. La classica esca pigliatutto.

C’è tuttavia un elemento (empirico) che spesso viene sottovalutato, ma che getta luce sul fenomeno. Come conferma sul Messaggero l’ultimo sondaggio di Swg, il consenso raccolto dal movimento resta marcatamente disomogeneo a livello territoriale. I Cinque Stelle sono deboli nel Nord-Ovest (17,1%) e nel Nord-Est (20%), si fermano al 25% nelle regioni del Centro e appaiono ben altrimenti radicati nel Mezzogiorno continentale (35,8%) e insulare (34%). Il che suggerisce almeno tre considerazioni.

La prima è la più ovvia. Se è vero che i pentastellati sono riusciti più di altre formazioni politiche a rappresentare le tensioni e le paure suscitate dalla crisi economica e dal suo fenomeno più vistoso, cioè la precarietà occupazionale, non stupirà che essi riescano a spuntare i consensi maggiori nelle regioni meridionali. Da questo punto di vista, la distribuzione territoriale del grillismo è lo specchio di una diversità strutturale tra Sud e Nord che appare enfatizzata (nella realtà delle cose e nella percezione di individui e famiglie) dalla lunga congiuntura negativa.

La seconda considerazione mette in gioco le performance della politica locale. Non sembra un caso che il M5S riesca a sedurre l’elettorato soprattutto laddove i governi regionali e municipali hanno dato, negli ultimi anni, cattiva prova di se. Né serve rivangare una famosa ricerca di Robert Putnam del 1993 sul differenziale di produttività tra regioni meridionali e regioni centro-settentrionali per sapere chi siano i buoni e chi siano i cattivi.

Certo è che l’opinione pubblica del Sud sembra intenzionata a reagire ai limiti (e talvolta ai disastri) dei propri amministratori, confluendo in quello che è, al momento, il più forte bacino della protesta. Il successo del M5S è l’impietosa conferma che l’antipolitica prospera dove la politica ha fallito.

Ma c’è un terzo elemento che merita qualche parola. La capacità dei pentastellati di entrare in consonanza con ampi strati di popolazione, infatti, non segue soltanto i confini della crisi economica e della crisi politica. Sembra riflettere anche i confini di una crisi culturale particolarmente intensa in talune aree del paese. Dei Cinque Stelle è stato detto, per analogia con il fenomeno populista, che si tratta di un movimento «senza anima». Che ha una «ideologia debole». Definizioni che forse sottovalutano la capacità del movimento di lanciare messaggi e proporre suggestioni magari assai poco credibili, ma vicine alla sensibilità di strati di popolazione a loro volta investiti dalla spettacolare mutazione della cultura di massa e della comunicazione pubblica, e disorientati dalla scomparsa delle tradizionali mediazioni culturali. Quella del M5S sembra piuttosto una «forte ideologia debole», se così si può dire. Un miscuglio di protesta e ansia di cambiamento, di idioma visionario e radicale antistoricismo, di universalismo e localismo, di giovanilismo e millenarismo. Nel messaggio di fine anno, per dirne una, Beppe Grillo ha bombardato il proprio popolo con una raffica di immagini fiammeggianti, algoritmi, intelligenza artificiale, robotica, cloud, iphone. «Dobbiamo avere un accesso alla conoscenza libero e gratuito», ha ruggito. «Quando nasci ti devono dare una email». E’ andato avanti così, in crescendo. Né ha dimenticato gli anziani, giocando sul «virus dell’eternità». E se a un certo punto ha parlato di reddito di cittadinanza, anche questa prospettiva concreta (o concretamente irrealistica, direbbero gli economisti) ha voluto immergerla nel suo blob profetico. Un giorno, ha detto, il nostro sarà un reddito universale: «Per tutti, giovani, vecchi, ricchi, poveri!». 

Difficile non vedere nel monologo del Santone la volontà di rappresentare lo spirito dei tempi, sebbene tradotto negli sberleffi del comico televisivo. E difficile non capire perché simili idiomi trovino ascolto in aree sociali e territoriali culturalmente meno strutturate e attrezzate. Com’è il Sud della descolarizzazione, della disoccupazione, del lavoro nero giovanile, della società civile debole, della fragilità delle istituzioni pubbliche. Un Sud la cui classe politica - da Michele Emiliano a Luigi de Magistris - continua tuttavia a rincorrere il fenomeno pentastellato sul suo stesso terreno. Aggravando, in tal modo, quell’impoverimento culturale che è tra le cause principali della disfatta della politica.

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