Ilva in bilico, senza Taranto a rischio tutta l'industria italiana

Ilva in bilico, senza Taranto a rischio tutta l'industria italiana
di Nando Santonastaso
Sabato 21 Luglio 2018, 07:00 - Ultimo agg. 15:15
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Dice Antonio Gozzi, presidente di Federacciai, la più rappresentativa associazione degli industriali siderurgici italiani, che l'industria italiana deve tantissimo alla trasformazione del metallo e che grazie ad essa contribuisce in misura massiccia alle fortune dell'export nazionale. I numeri gli danno ragione perché su 550 miliardi di valore complessivo delle nostre esportazioni, ben 450 sono assicurati dalla sola manifattura. E in questa cifra una parte a dir poco importante è garantita dall'industria meccanica: «Ecco perché la riconversione del più grande impianto europeo arrecherebbe un danno irreparabile. L'Italia sarebbe costretta a comprare l'acciaio dai Paesi concorrenti, Cina e Germania in testa: sarebbe assurdo», dice Gozzi. Per capire ancora di più il peso dell'Ilva di Taranto ci sono anche altri numeri: nel 2016 l'Ilva ha prodotto e venduto 5,8 milioni di tonnellate di acciaio, utilizzando, peraltro, solo il 50% della capacità produttiva ma garantendo lavoro a oltre 14 mila dipendenti e producendo un fatturato di oltre 2,2 miliardi di euro. Sono cifre importanti delle quali sarebbe impossibile non tener conto nell'attuale dibattito sul futuro di quello che resta il più grande polo siderurgico europeo.
 
L'Ilva non è solo la più grande realtà industriale del Mezzogiorno per numero di addetti diretti (ai quali devono essere aggiunti altri 6000 lavoratori dell'indotto) ma è anche la più grande fabbrica manifatturiera d'Italia. Mirafiori, come ha ben ricordato Federico Pirro su Formiche, ha solo 6mila dei 17mila addetti che vi lavorano adibiti alla produzione manifatturiera. Basta questo a delineare uno scenario complicato per l'economia tarantina (nella città e più complessivamente in Puglia risiede il 99% del personale del gruppo, ma i tassi di disoccupazione superano il 20%). Secondo i calcoli della Svimez, l'impatto della crisi dell'Ilva, apertasi di fatto nel 2012, rischierebbe di produrre effetti economici, prima ancora che sociali e occupazionali, persino superiori a quelli registrati finora. In cinque anni, tra il 2013 e il 2017, sono già andati in fumo, infatti, quasi 16 miliardi di euro, almeno 2 punti di Pil. A dimostrazione poi del fatto che la questione Ilva era e resta sempre più di interesse nazionale, c'e' anche il dato dell'export decapitato, come lo chiama la Svimez. In pratica in quegli stessi cinque anni l'Italia ha subito per gli effetti diretti e indiretti della crisi siderurgica un taglio di esportazioni di 7,4 miliardi di euro. Se l'impianto, come pure si è detto in campagna elettorale da parte dei 5 Stelle, dovesse chiudere o essere ridimensionato e riconvertito, l'effetto sull'export sarebbe ancora maggiore. E non basta: perché l'inevitabile ritirata dei grandi gruppi privati e post-pubblici produrrebbe un danno calcolato in circa 4 miliardi di investimenti in meno. Al futuro dell'Ilva, del resto, si lega anche quello delle altre aziende siderurgiche non solo meridionali. Basti dire che nel solo Nord-est la filiera dell'acciaio, prodotta da impianti più piccoli ma di solido mercato, ha generato un giro di affari di oltre 10 miliardi e oltre il 20% di valore aggiunto sul fatturato. Numeri rilevanti ma non sufficienti a garantire il ritorno di una cordata tutta italiana per l'acquisto di Ilva.

Quella di AcciaiItalia, sconfitta all'apertura delle buste, è già un ricordo: smentite le indiscrezioni di stampa rilanciate in questi giorni. L'Italia può al massimo aggregarsi ai colossi internazionali del settore. Eppure senza siderurgia non si riuscirà a preservare il motore della crescita manifatturiera italiana, specie con la pesante offensiva dei dazi lanciata da Trump nei confronti dell'Europa. Viene da chiedersi: la vicenda Ilva non rischia di finire come quella di Bagnoli, aprendo un vuoto che a Napoli da 26 anni non si riesce a colmare?

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